L’allevamento della ciòura\ciàura, capra, e della féda, pecora, nel secolo passato, rappresentava un’attività più diffusa ed importante di quanto oggi lascino intendere le notizie e le informazioni raccolte sul campo. La scarsa importanza che viene attribuita dagli informatori all’allevamento di questi animali, soprattutto in rapporto a quello bovino, potrebbe trarre in inganno. In realtà molti toponimi [156] che ritroviamo nelle montagne del Cadore, nonché le norme conservate nei Laudi, lasciano intravedere per il passato una situazione ben diversa, dove l’allevamento del bestiame menudo, degli animali minuti, era anche più diffuso di quello bovino.
Le persone più anziane attribuiscono all’allevamento della pecora un interesse relativo solo all’utilizzo della lana e della carne d’agnello, mentre il latte di capra sembra essere stato usato principalmente per fini domestici [157]. Viene da pensare che il calo dell’importanza dell’allevamento di questi animali sia iniziato già nei primi decenni del ‘900. Per quanto riguarda la capra non va inoltre dimenticata la legge del 1926 che, al fine di tutelare il bosco, limitava fortemente la possibilità di allevare quest’animale, indicato come uno delle maggiori cause di depauperamento dei boschi cadorini [158]. Poiché non si hanno dati statistici precisi relativi alla situazione prima e dopo l’emanazione della legge [159], è difficile stabilire e capire i reali effetti che ne seguirono e ancora una volta è necessario affidarsi alla memoria degli uomini. Un anziano informatore ricorda che in seguito a queste norme alcuni allevatori locali, che avevano concentrato la propria attività soltanto sull’allevamento della capra, furono costretti a vendere la maggioranza dei capi e limitarne fortemente il numero, mentre le singole famiglie iniziarono a tenere in stalla non più di una o due capre.
La legge arrivò in un momento di crisi generale dell’allevamento bovino in Cadore in seguito anche alle grosse perdite subite dagli allevatori al termine della 1° guerra mondiale. In un articolo de ‘Il Gazzettino’ del 10-marzo-1926 si legge ‘Le recenti disposizioni del Comitato Forestale, per disciplinare il pascolo caprino, mirando soltanto al futuro generale interesse boschivo, non possono andare esenti da mature riflessioni. …Gran parte delle bovine avute per risarcimento danni di guerra, non hanno fatto buona riuscita, perché provenienti da razze e climi disparatissimi; per cui i proprietari dovettero ben presto disfarsene con gravi perdite…Per quale fine ai proprietari di animali bovini è proibito di pascolare caprini sui boschi comunali, ove detto pascolo è permesso? …I possessori di bovini, generalmente sono costretti di tenersi anche qualche caprino sia per il latte in tempo estivo durante l’alpeggio dei bovini, sia per avere una pronta fonte di sussistenza, se i bovini, cotanto costosi e delicati, andassero in deperimento…Gli impossibilitati a tenere animali bovini, avrebbero il diritto di tenere qualche caprino gravato di una tassa di venti lire. In questo modo si andrebbe verso la distruzione completa dei caprini e anche dei lanuti.’
Un numero ristretto di animali portò necessariamente ad un ridimensionamento delle attività ad esso legate; così in molti paesi si trovano scarsi ricordi riguardanti l’alpeggio di questi animali, che spesso le famiglie preferivano portare in montagna per la fienagione durante il periodo estivo . Poche sono anche le notizie, raccolte tra gli informatori, riguardanti l’allevamento della pecora per l’utilizzo del latte, una pratica questa che appare del tutto desueta nella maggior parte dei paesi considerati in questa ricerca Fa eccezione il comune di Domegge che negli anni ’50 contava ancora un numero considerevole di ovini (300 nel 1954 [160]) e dove si continuò fino agli anni ’70 circa a produrre formaggio di pecora misto capra. Le notizie raccolte sul campo, confortate da dati statistici, mostrano per l’allevamento della capra una situazione decisamente differente, da comune a comune, nella zona considerata in questa ricerca.
In particolare va sottolineata la realtà di Domegge e Lozzo, soprattutto di quest’ultimo, dove l’allevamento della capra occupò anche in tempi recenti un ruolo importante.[161]
Complessivamente risulta piuttosto difficoltoso dare un’idea attendibile dell’allevamento ovino e caprino in Cadore nei decenni passati, poiché si tratta di una realtà sfuggente ed in continuo cambiamento, che presenta aspetti e situazioni differenti non solo da comune a comune, ma anche tra le frazioni che li compongono. Il ricordo di questi cambiamenti è ormai labile nella memoria degli informatori e scarse sono talvolta anche le notizie archivistiche, per non parlare di quelle bibliografiche. È pertanto difficile stabilire quando un pascolo o una casera vennero abbandonati o entrò in uso monticare gli animali in casere di proprietà di altri comuni o quando si smise di produrre formaggio di capra, ecc.
Il lavoro della stalla ed il pascolo di piano.
Pecore e capre durante l’inverno venivano tenute in stalla assieme ai bovini, ricavando un piccolo spazio con una tramezza fatta di tavole in legno; se i capi erano molti veniva loro destinata un’intera stalla. All’allevamento di questi animali non si riservavano particolari cure e per il loro nutrimento si ricorreva spesso alle brósse, ovvero al fieno che le mucche scartavano e lasciavano nella cianà, in generale ad esse era somministrato il fieno meno buono e meno nutriente. È presumibile che gli allevatori di soli ovini o caprini ponessero maggiore attenzione e cura al mantenimento di questi animali, tuttavia le notizie raccolte si riferiscono solo ad un’attività di allevamento considerata subordinata a quella dei bovini.
M. Una, una ciàura, sì.
D. E ònde starèela sta ciòura?
L. Senpre là te stala có la vacia.
M. E pò l à fato sta ciàura, na audhuta, e pò dopo n òta l é dhesta inte na nostra ciàura a passón.
L. Conti mó chela de Stricole.
M. Co la audhòla. Chela sera vadho su n contra a vedhe se le vién, vién la ciàura thentha l audhòla, thentha só fia disón. Alora vado su da Rosi, l é morta, puareta, chela… chela che i à betù via l àutra siera: ‘Oh iuto Rosi, me mancia, no m é veniù gnanche l audhola, agnó sarala adhès, agnó sarala?’ L à dhito: ‘Dhón pèdhe mé’. Era Bepi de Bion… ‘Dhon pèdhe mé.’ Son ciapadhe e son deste inte a Loreto. La ciesa inte a Loreto. E n pètho in inte ancora, là i ciama Sote Piana, alora èi dhito ‘ Próa a ciamala, Rosi, próa a ciamà Stricole’. L à ciamòu ‘ Stricole’, l à fato n ‘Bee’, l à risposto…
D. Cuanti mes avèela sta bestiola?
M. No l avèa tante mes. L à risposto, alora Rosi é coresta dhó presto.
D. La s avèa perso?
L. La s avèa perso, inpigliòu dhó là.
D. Ma sta ciòura cenèela parchè ela?
M. Pa l late.
L. Parchè d istadhe cuan che le vace restèa sute, bisognèa avé l late e alora se tinìa la ciàura par avé l late. [162]
Trascorso l’inverno in stalla, gli animali venivano portati verso il mese di aprile in pascoli prossimi al paese. In ogni comune si riscontrano delle modalità differenti di conduzione riguardanti il pascolo di piano, che tuttavia sono accomunate da un’organizzazione collettiva. Da quanto raccolto tra gli informatori sembra di capire che rispetto a tempi più recenti, in passato fossero molti i paesi che praticavano una forma di pre-alpeggio. I comuni di Lorenzago e Domegge disponevano di due casere dove capre e pecore venivano monticate prima di salire alla monte vera e propria. La Casera di Santigo, di proprietà del comune di Lorenzago, venne monticata fino agli anni ’40 circa, mentre quella di Malòucie, nel comune di Domegge fu utilizzata fino agli anni ’60 ed oltre. Queste due malghe funzionavano esattamente come le malghe di monte e i pastori e i mistre erano nominati dai proprietari di animali.
Per questa forma di pascolo sono state raccolte notizie soprattutto riguardanti Malòuce,[163] dove l’attività come si è detto si è prolungata fino a tempi relativamente recenti, e dove sono ancora molte le persone, anche giovani, che hanno un ricordo vivo della casera e della sua attività. Il giorno stabilito per il trasferimento a Malòuce, gli animali del paese venivano raccolti in un grande recinto presso l’attuale Piazza dei Martiri di Domegge.
D. E te la stessa stala se cenèa vace, fédhe e ciòure?
– Conforme le stale che se avèa, noi cenéone anche tré vace, anche tré n in riga e dopo avóne le ciòure e le fédhe su n zima, anche fédhe e ciòure.
D. E a le fédhe e a le ciòure se dalo l stesso damagnà che se da a le vace?
– Anche ele se da damagnà là, l avèa la so cianuta, la só cianà e le magnèa come le vace, pò.
D. Nvethe le fédhe e le ciòure se le portèa n tin prima su, éro?
– Sì, le dhèa a Dhoana chele, dhute a Dhoana le dhèa.
D. I me à dhito che se farèa nche formai de ciòura?
– Sì, formai de fédha e formai de ciòura era, era i suoi pastor, a Dhoana, no te sos mai stadha? Ca fòra era la casèra de le fédhe e de le ciòure, e là inte era chela de le vace.
D. E dopo a la fin de la staión, come che se farèa co le ciòure, anche co le vace se portèa dhó?
– Éh sì, sì dopo i le parèa dhó. E prima de dhi lassù i dhèa a Malòuce, co le fèdhe e le ciòure. Te sas che era na casera anche là ìa. E pò i partèa là ìa e i dhèa su cuan che era d istadhe: le vace dhèa là inte e le ciòure starèa ca de fòra. Adhès le fédhe va su anche adhès. [164]
Il latte di pecora non veniva abitualmente utilizzato per fini domestici e pertanto, al momento della monticazione, i pastori procedevano ad una verifica delle mammelle, per assicurarsi che le pecore non fossero asciutte. Terminata l’ispezione, il numero degli animali veniva annotato in appositi registri, quindi si procedeva alla benedizione dei capi da parte del prete. Erano i pastori stessi che accompagnavano gli animali in malga, conducendoli per la vecchia strada che portava al Piave e, attraversando i prati di Pomoline, fino alla casera posta a poco più di 800 metri d’altezza. Ad accudire capre e pecore erano 1-2 pastori e spesso un bocia, un ragazzo giovane che faceva apprendistato per divenire pastore a sua volta. Il mistro, uno solo per un numero considerevole di capi, produceva formaggio e ricotta mista di capra e pecora. La distribuzione dei prodotti avveniva, come per i bovini, in base alla quantità media di latte prodotto da ciascun capo; il siero residuale della lavorazione del formaggio veniva utilizzato in parte per la produzione di ricotta ed in parte distribuito agli allevatori che, anche quotidianamente, si recavano in malga con la gamela, pentolino di latta, per portarlo a casa. Gli animali rimanevano nella casera fino alla metà di giugno [165] e poi salivano, sempre accompagnati dai pastori, nella malga di Doana. Al ritorno da questa malga, prima di trascorrere l’autunno a Malòuce, gli animali venivano recuperati dai proprietari e tondide, tosati, e poi riportati al pascolo. Le malghe di Malòuce e Santigo erano utilizzate nel periodo primaverile e in quello autunnale: a Santigo gli animali rimanevano fino all’arrivo della prima neve. Il formaggio prodotto nel periodo autunnale, dopo la discesa dalla monte, secondo la consuetudine non veniva distribuito ai proprietari degli animali ma era riservato ai pastori che lo vendevano ricavando così qualche soldo.
Un anziano informatore ricorda che gli abitanti della frazione di Laggio verso gli anni ’20 portavano i propri ovini e caprini verso il monte Tudaio, dove un grosso allevatore di capre prendeva in custodia, nel periodo del pre-alpeggio, i capi appartenenti alle famiglie dell’intera frazione. Fino agli anni ’50 capre e pecore di tutto il comune di Vigo venivano portate prima e dopo la monticazione al Tabià del Comun, in località Pigné, dove un pastore provvedeva a condurle al pascolo nei prati vicini. Nel Comune di Lozzo, era presente una casera in località Cornon, dove gli animali trascorrevano la primavera e l’autunno prima di essere portati sull’altipiano di Pian dei Buòi. Di questa casera non vi sono ricordi o testimonianze orali mentre in molti ricordano che fino agli anni ’60 circa, si portava il bestiame a pascolare nei prati di Loreto e Cornon. Ogni giorno gli animali venivano raccolti in una piccola piazza, in località Pròu, dove li attendeva un pastore, pagato dagli allevatori. Gli animali erano tenuti al pascolo fino a tardo pomeriggio quando venivano riportati in paese e riconsegnati a ciascun proprietario; alcuni informatori ricordano che le capre erano spesso in grado di ritornare da sole alla propria stalla. Nella frazione di Vallesella il sistema di pascolo primaverile ed autunnale era simile a quello sopra descritto, le zone di pascolo erano soprattutto i prati prossimi al greto della Piave, oggi sommersi dalle acque dell’invaso, dove la presenza di doline e grotte, in dialetto locale ciare, offrivano un rifugio agli animali e al pastore durante le ore più calde della giornata. Si ricorda che una di queste grotte era chiamata per l’appunto Pòussa del ciòure.[166] Anche ad Auronzo e a Pieve, nella frazione di Pozzale, il pascolo di piano avveniva affidando gli animali ad un pastore, che li portava nei pascoli e boschi limitrofi al paese; questa pratica un tempo limitata alla primavera e all’autunno, dopo gli anni ’40 circa proseguiva durante tutta l’estate. Gli abitanti di Pozzale, in passato, erano solita monticare i propri ovini, per il pre-alpeggio, nella casera di Frappon e Burchio.
Fino ai primi decenni del ‘900 questa forma di pascolo di piano veniva organizzata col ródol; a turno un membro di ciascuna famiglia del paese era tenuto a portare al pascolo il gregge; la mattina presto il pastore passava per le strade del paese suonando un corno e dando avviso alle famiglie di consegnare i propri animali, solo in un secondo momento subentrò l’uso di pagare un pastore. In autunno, greggi di ovini e caprini erano portati al pascolo anche sui prati privati, dove ormai l’erba era stata tagliata; non si trattava in questi casi di pascolo collettivo, ma esercitato dai membri della famiglia proprietaria del fondo. Impiegati come pastori dopo scuola erano spesso i bambini.
Al collo delle capre veniva solitamente messa la canòula\canàula, il collare in legno, con una piccola campanella, inoltre ad ogni capra veniva dato un nome. Alle pecore, per essere distinte le une dalle altre, venivano praticate le node, ovvero dei tagli su una o entrambe le orecchie; ciascuna famiglia aveva la propria noda.
Il pascolo di monte
Gli animali terminavano il pascolo di piano verso la fine di maggio o nella prima quindicina di giugno e poi venivano condotti in alta montagna. Le date di monticazione degli ovini e dei caprini erano generalmente precedenti a quelle dei bovini. Dalle frazione di Domegge, Vallesella e Grea, pecore e capre, a partire dal 15 di giugno, venivano condotte nella Casera de le Fède a Doana,. L’edificio era composto da una casera per la lavorazione del latte e per accogliere i pastori, mentre la stalla era costituita da una grande tettoia con copertura a capriate, priva di mura perimetrali.[167] Le capre del comune di Lorenzago venivano portate a Pian de Sire, con le bovine, per quindici, venti giorni e poi a Losco, in entrambe le casere si produceva formaggio di capra e di mucca. Le pecore, invece, venivano lasciate pascolare incustodite sulla montagna di Sarenedo. Questa pratica di lasciare incustodite le pecore in pascoli spesso poco agevoli era assai diffusa in passato, riguardava naturalmente quella parte del gregge che non veniva munto e che pertanto non necessitava dell’intervento dell’uomo. Gli informatori più anziani ricordano che ad Auronzo un gregge di pecore veniva lasciato durante tutta l’estate nei pascoli in località Malon; a Domegge un piccolo gregge veniva condotto, nei primi decenni del ‘900, in zona Baion, mentre sulla montagna di Montanèl fino alla fine dell’800 pascolavano greggi provenienti da Belluno.
D. Ste féde a Baion e Montanel dèa da sóle o…
G. Sole, sole, ma tuta roba seca. Sentha late, sentha niente.
D. No starèa nissun là?
G. No, no no. No: sì, i starèa parché par esenpio, i pastor de là par le vache e conpagnia bela, i savèa ònde che le era.
S. Magare i avrà portà anche na branciadha de sal o…
G. No le starèa là, parché anche a i miéi tenpi i betèa anche i coce lassù lore.
S. Le féde, tu te le mòle, te le mòle da sole, ele va senpre sul punto pì òuto.
G. Eco, anche lui a Vedorcia le dhèa senpre lassù.
S. Parchè le tende a tirà n òuto. Arda l cocùtholo pì òuto che è, ele se tira là così. Parchè le gó dominà, parchè le gó èsse segure de no avé nìa a le spale che podhe agredile. Ad esenpio, cuan che dhói ane fa da la coperativa é partì una parte de féde da Doana e le à traversà là, i è dudhe su a Sarenedhe, che saràe na montagna del Tudaio, par spiegasse, la catena…sul pósto pì òuto tacà a le crodhe. Difati un pastor da Lorenthago l me à dito ‘Èh, podheà domandame che ve disèo n bòta ònde che le dhèa’. Parchè da vecio lore che i pascolèa in Val da Rin o ca fòra a Losco, le féde co le partia le finìa su pa le crodhe, i ciama i Sarenedhe
G. Parchè lore i betèa là, no, anche lui a Vedorcia l é dudhe a trovarle lassù, lui.
S. Èh sì, nthima a i còi. E cuan che le à tacà a partorì l é dhesthe inte a Forthela Spé tacadhe a le crodhe, ònde che le se siente protete, probabilmente. Ele pì n su de là no le va.
D. Fin a cuan ele stadhe portadhe a Montanèl?
G. Alora, la stàe atento, l mè tenpo no. Era senpre che a Montanèl, chi aniéi là, par esenpio; a Baion sì anche a i miei tenpi, parché anche Baion…Ma sicome che era manco, dopo, alora i le portèa là, e era n certo Da Vanzo, só papà de Ulisse, che l farèa l pastor. [168]
Nella monte di Razzo venivano monticate insieme pecore e capre. In passato la monte disponeva di una casera destinata esclusivamente a questi animali, mentre in tempi più recenti le capre dividevano una parte dei mandrói destinati alle bovine. Le pecore, poiché non dovevano essere munte, venivano lasciate per lo più all’aperto. Le frazioni di Sottocastello e parte di Tai, nel Comune di Pieve, monticavano i propri animali nella monte di Vedorcia, dove un tempo esisteva una casera de le ciaure; la frazione di Pozzale, portava le proprie pecore e capre in località Cianpestrin nei pressi di forcella Pria, ai piedi dell’Antelao, e in Col del Lum, non è facile dire fino a quando questi pascoli vennero utilizzati ma è presumibile che lo siano stati fino ai primi decenni del ‘900. Il comune di Lozzo disponeva di un importante pascolo per pecore e capre nel pianoro de Pian dei Buoi, dove era situata anche una casera demolita non molto tempo fa. Tra gli animali monticati nel Comune di Lozzo soltanto le capre erano munte e il loro latte usato per produrre latticini. La vita dei pastori di capre e delle pecore non era sostanzialmente diversa da quella dei pastori di bovini e forse talvolta risultava più faticosa, poiché la permanenza in montagna era più lunga e la solitudine si faceva sentire maggiormente.
Il pascolo, tanto di piano che di monte, presentava qualche difficoltà per la tendenza di questi animali a sfuggire al controllo dei pastori. Basti pensare alle ferree regole a cui era sottoposto il loro transito durante gli spostamenti verso la malga o sui pascoli di piano, affinché non danneggiassero la proprietà privata; lo sconfinamento, in montagna, su pascoli di proprietà dei comuni limitrofi non era raro e pertanto vigeva la regola che il latte ottenuto dalla mungitura serale rimanesse in uso alla casera su cui si trovava il pascolo violato; in passato tale situazione portava talvolta alla requisizione degli animali stessi.
Alcuni casari sostengono che il latte di mucca è più facile da lavorare poiché è meno delicato ed inacidisce con minor facilità. Il formaggio di capra era confezionato in forme più piccole e sembra che fosse particolarmente apprezzato dai siore, dai turisti, a cui le famiglie o i pastori stessi lo vendevano. Alcuni pastori ricordano inoltre che le capre erano particolarmente insofferenti alla pioggia, e nei giorni di brutto tempo esse preferivano trascorrere la giornata in stalla al riparo e senza mangiare che uscire e bagnarsi. Capre e pecore di ritorno dalla malga, anche a causa dell’umidità, avevano spesso la nàussa\snàussa, una malattia che le colpiva agli zoccoli facendole zoppicare.. Per curarle era necessario effettuare degli impacchi e delle fasciature con rasa, resina di pino e areà, resina di larice o altri rimedi casalinghi.
La tosatura delle pecore e la lavorazione della lana
L’utilizzo di lana proveniente da pecore allevate in loco per il confezionamento di indumenti e la fabbricazione di stoffe è continuato a sussistere fino agli anni ’60 circa.
Un tempo lana, canapa e lino, questi ultimi coltivati fino agli anni ’40, rappresentavano le fibre più comuni ed utilizzate, altri tipi di stoffe erano acquistabili nei rari negozi di merceria o da ambulanti che passavano periodicamente nei paesi. Nei primi decenni del secolo, l’uso di filare la lana in casa era ancora molto diffuso e pertanto le famiglie disponevano di tutta l’attrezzatura necessaria quale il corleto, l’arcolaio a pedale. [169]
Le pecore di norma venivano tondide, tosate, due volte l’anno, in primavera ed in autunno. Ogni proprietario provvedeva da sé ad effettuare il lavoro, stendendo l’animale, con le zampe legate, ad una tavola e procedendo con una forfis, forbice apposita. L’attenzione maggiore doveva essere rivolta a no fèighe massa busete, a non ferire l’animale con la forbice. La lana migliore era quella della schiena, più lunga e più pulita. Quando la filatura veniva realizzata in casa, era preferibile non lavare prima la lana, per conservare il grasso naturale del vello e facilitarne la lavorazione. La filatura era compito esclusivo delle donne che vi si dedicavano durante l’inverno. La lana non veniva sottoposta ad alcun trattamento di tintura, i colori erano quelli naturali con sfumature del bianco e del marrone. Le ultime donne a dedicarsi alla filatura erano le anziane e dopo di loro si preferì portare la lana alla filanda. Oggi è pertanto difficile trovare donne che abbiano praticato questo lavoro. Opifici per la filatura della lana si trovavano a Lozzo e a San Vito nella Val del Boite. Quello di San Vito funzionò fino agli anni ’70 e servì per molti anni tutto il Cadore. La lana era portata alla filanda già lavata e pulita; alla consegna veniva pesata e in cambio venivano date delle matasse di filo. Si trattava di una lana ruvida e poco elastica di cui si ricordano ancora adesso gli effetti sulla pelle. Con la lana venivano confezionati tessuti, biancheria intima, calze e calzettoni, mentre la moda dei maglioni si affermò solo a partire dagli anni ’50 .
Le stoffe tessute in casa con telai domestici scomparvero agli inizi del ‘900 e nessuno ne ha più la memoria; come per la filatura anche per la tessitura le famiglie si rivolgevano a chi di mestiere. La stoffa prodotta poteva essere di pura lana o di lana mista a canapa, mèda lana, utilizzata per confezionare, gonne, pantaloni e giacchette.
Con il pellame di capra venivano fabbricate le pèl de ciòura\ciàura per i pastori al pascolo, dei semplici indumenti da porre sulle spalle nelle giornate piovose. La morbida pelle d’agnello si conciava e utilizzata come coperta o nel letto dei malati per evitare la formazione di piaghe da decubito. Un’informatrice, infine, ricorda che le vece, le vecchie, con la pelle di scarto di agnello fabbricavano dei piccoli sacchi che riempiti di lana e cuciti venivano date ai bambini come palle da gioco.
– Avèo na fédha che me fasèa ogni an dói, e alora èi fato anche presto a tirame su sta lana, e se no, na fédha par ciasa cossì, se no s avèa lo scopo…E durante la guera me mare l avèa e eó…la filàa ela e filào….anche ió mo filào.
D. Dopo la me dhis come che se fa a filà, alora.
– A filà?…Èh ció là, a filà no é mia niente de particolare, ma bisogna l corleto, e l fus…
D. Ma alora ién tondidha la lana, e dopo de la lana cosa se falo? La me dighe proprio dhuto, parchè ió no èi mai visto.
– No. Alora sta tenti, a tondì na fédha s i ghi léa le gianbe davante e davòi, éro, le dhóe davòi e chele dhóe davante che le staghe ferme, su un tavolatho. E dopo con n tin de maniera, dhe no fèighi massa busete, co le forfis se le tondisse. E par filala s i ghi cen la schena, la lana de la schena, che la é bela, lònga e neta. Dopo che l àutra se fasèa cussin o argo e…parchè chela era tante co le pétole…nsoma, l era da scartasse. Alora o che le femene vece, magare, filàa a fèi calthet o robe pì secondarie. Ma par fèi vegnì fòra na bela lana…era la lana de la schena che l era anche bela lònga. E pò bisogna filala da lavà, che l ève inte l so gras, che saràe la famosa lanolina, éro sì. Alora la vién fòra pulito. Se é l filo se lo méte sù su la ròca, la cànape, me mare filàa anche chela; e se é la lana, vethi, se la tién su man, ah. Alora éro, l é l corleto… l à presente l corleto, éro? E l fus. Se à dha fissà inte…eh, adhes ca no èi l atretho, ma… é bel à filà, èh? Bisogna ciapà n tin la man, e dhai el ritmo giusto de l pè su la pianèla a fèi dhi la cordha, sì co la cordha, a fèi dhi la rodha, ma n maniera, èro, se la tira fòra e la se tòrthe e vién fòra la lana. Ogni tanto se canbia su l fus, s i canbia la ciave se ciama, parchè dopo al fus végne bén dhuto regolare, éro. Cossì, ah!
D. Alora praticamente l grumo de lana ién messo inte te l…
– No, nte man. Se tòle su un gropo a l òta a sinistra e se lo cén cossì, e ca é la pianèla, ca é l corleto, a destra. (…) No é dificile, é solo avé n tin pathientha, ma bisogna avé vóia de fèi. Parchè me suó no à mai volesto savé, ió nventhi èi preòu me mare che la me nsegne, e pàrche la me nsegne me èi fin cenesto n conicio de chi àngora. E pò i giavào l pelo; e pò ero tosa, m èi fata un golfuto, m èi filòu la lana e m èi fato…Èi conpròu n tin de sedha autarchica, alora no era lana bèla, e metesto apedhe m avèo fato un bel golfino. Ad ogni mòdho me mare me avèa insegnòu e eó me l èi filadha, ah, me la filào. Capìssela? E dhopo m avèo filòu a fèime…(…) e m èi fato n bèl siàl, e chel là che spietào l primo fiól, avèo sto bèl sial bianco su le spale dhe lana filadha da mi.
D. Alora co la sinistra se cen l grumo e co la destra se ròdhola…
– Sì, co la sinistra se cen al gropo de la lana. Ma… co la sinistra l bratho. E dopo é dute dhóe le man, é i cuatro dhédhe che à da dhuià. Alora ela éro, la siente là l tasto, no, la ròdha va atorno e ca vién fòra l filo. Bisogna sta atente che l filo no vadhe inte, parchè alora daspò bisogna fèi l gropo, e bisogna fèighe chel grópo de la tela. La sa, èro? [170]
Note al testo:
[156] Si veda Tambre, Tamarì in Andrea Angelini e Ester Cason, a cura di, Oronomi bellunesi, Quaderni scientifici della Fondazione, Padova, Fondazione Giovanni Angelini Editore, 1993. [torna su]
[[157] Una o due capre venivano sempre portate a prà, ovvero in montagna durante la fienagione, per poter disporre di latte fresco ogni giorno; in ogni caso il latte di capra veniva utilizzato in casa al posto di quello di mucca che si preferiva portare in latteria. [torna su]
[158] La capra, portata al pascolo, mostra una grossa predilezione per le cime e i germogli degli alberi. Sull’argomento di veda Franca Modesti, Emigranti Bellunesi dall’800 al Vajont, Milano, Franco Angeli, 1987 pagg. 176-179. [torna su]
[159] Sulla diminuzione complessiva dei caprini in provincia di Belluno si veda, I caratteri economici della Provincia di Belluno, Camera di Commercio, Industria ed Agricoltura di Belluno, Città di Castello, Tipografia Unione Arti Grafiche, 1953. Tabella pag. 8. [torna su]
[160] Ai 300 capi del Comune di Domegge corrispondono i 62 di Calalzo, i 16 di Lozzo, i 115 di Pieve, i 60 di Lorenzago e i 100 di Vigo. I dati sono ricavati da Eliseo Bonetti, L’Otre Piave e il Medio Cadore, op. cit., pag.44. [torna su]
[161] Nel 1954 Domegge contava 140 capre, Lozzo 174, Calalzo 38, Pieve 40, Lorenzago 25, Vigo 40 su una popolazione rispettivamente di 2674 ab. ( Domegge), 1856 ab. (Lozzo), 2019 ab. (Calalzo), 3679 ab. (Pieve), 776 ab. (Lorenzago), 1945 ab. (Vigo). [torna su]
[162] M. e L. D. L., anni 81 e anni 54, ex contadina e operaia, Lozzo di Cadore, inverno 1998.
M. Una, una capra, sì.
D. E dove stava questa capra?
L. Anche lei là nella stalla con la vacca.
M. E poi ha avuto, questa capra, una capretta, e poi una volta è andata una nostra capra al pascolo.
L. Raccontale, raccontale un po’ di Strìcole.
M. Con la capretta. Quella sera le vado incontro per vedere se arriva, viene la capra senza la capretta, senza sua figlia, diciamo. Allora vado da Rosi, è morta poverina, quella che hanno seppellito l’altra sera: ‘Oddìo, Rosi, mi è sparita, non mi è neanche venuta a casa la capretta, dove sarà adesso, dove sarà?’ Lei ha detto: ‘vieni con me’. C’era Bepi de Bion… ‘Vieni con me’. Abbiam preso e siamo andate a Loreto. La chiesa di Loreto. E ancora un pezzo oltre, là lo chiamano Sote Piana, allora ho detto ‘Prova a chiamarla, Rosi, prova a chiamare Stricole’. Ha chiamato ‘Stricole’, ha fatto un ‘bee’, ha risposto…
D. Quanti mesi aveva questa bestiola?
M. Non aveva tanti mesi. Ha risposto, allora Rosi è corsa giù subito.
D. Si era persa?
L. Si era persa, impigliata giù di là.
D. Ma queste capre perché le teneva?
M. Per il latte.
L. Perché d’estate quando le vacche restavano in asciutta, bisognava avere il latte e allora si teneva la capra per avere il latte. [torna su]
[163] Questa malga era utilizzata solo dagli abitanti della frazione di Domegge e non da quelli di Vallesella e Grea, frazioni del Comune che praticavano altri sistemi di pascolo. Fonte orale. [torna su]
[164] A.D., anni 98, ex contadina, Domegge di Cadore , inverno 1999.
D. E dentro la stessa stalla si tenevano vacche, pecore e capre?
– Dipende dalle stalle che si avevano, noi tenevamo anche tre vacche, anche tre una accanto all’altra e poi avevamo le capre e le pecore su in cima alla stalla, pecore e capre.
D. E alle pecore e alle capre si dà da mangiare quel che si dà alle vacche?
– Anche a loro si dà da mangiare lì, avevano la loro piccola mangiatoia, la loro mangiatoia e mangiavano come le vacche, poi.
D. Invece le pecore e le capre si portavano all’alpeggio un po’ prima, vero?
– Sì, loro andavano a Doana, andavano tutte a Doana.
D. Mi hanno detto che si faceva anche formaggio di capra?
– Sì, c’era formaggio di pecora e formaggio di capra, c’erano i pastori appositi, a Doana, non ci sei mai stata? Da questa parte c’era la casera delle pecore e dall’altra quella delle vacche.
D. E poi alla fine della stagione si portavano giù dall’alpeggio, tanto le capre che le mucche?
– Eh, sì sì, poi le portavano giù. E prima di salire lassù, andavano a Malòuce, con le pecore e le capre. Sai che c’era una casera anche lì. E poi da là si spostavano e andavano su non appena arrivava l’estate: le vacche andavano in quella casera là dentro e le capre restavano in questa. Le pecore vengono portate lassù tutt’ora. [torna su]
[165] Nel comune di Domegge la permanenza nella Casera di Malòuce non poteva prolungarsi oltre il 15 di giugno o altrimenti i proprietari del bestiame avrebbero dovuto pagare una quota giornaliera a coloro che avevano in concessione lo sfalcio dei prati della zona. La permanenza oltre la data fissata poteva essere causata dalle condizioni meteorologiche e dalla caduta di neve in alta montagna. [torna su]
[166] L’informazione è stata data da G. F., anni 69, Vallesella di Cadore, primavera 1997 [torna su]
[167] La casera e la stalla sono conservate ancora in buone condizioni. [torna su]
[168] G.D.V. e S. M., anni 85 e anni 41, ex casaro ed imprenditore agrario, Vallesella di Cadore, inverno 1999.
D. Queste pecore a Baion e Montanel, andavano da sole o…
G. Sole, sole, ma tutte asciutte, senza latte, senza niente.
D. Non ci stava nessuno, là?
G. No, no no. Anzi: sì, ci stavano, perché per esempio i pastori di quelle parti di vacche eccetera, sapevano dove erano.
S. Magari avranno portato anche una manciata di sale o…
G. Non stavano là, perché anche ai miei tempi mettevano anche i caproni, lassù.
S. Le pecore, tu le lasci da sole, e loro vanno sempre sul punto più alto.
G. Ecco, anche Vedorcia andavano sempre lassù.
S. Perché tendono ad andare in alto. Guarda il cocuzzolo più alto che c’è, loro si mettono là. Perché vogliono dominare, perché vogliono essere sicure di non avere niente alle spalle che possa aggredirle. Ad esempio, quando due anni fa dalla cooperativa è scappata una parte delle pecore da Doana e hanno attraversato là, sono andate su a Sarenede, che sarebbe una montagna del Tudaio, per capirci, la catena… sul posto più alto ai piedi delle rocce. Infatti un pastore di Lorenzago mi ha detto ‘Eh, potevate chiedermelo, che vi dicevo subito dove andavano’. Perché una volta, loro che pascolavano in Val da Rin o a Losco, le pecore quando si allontanavano finivano su per le rocce, il posto lo chiamano i Sarenede.
G. Perché loro le mettevano là, no, anche lui a Vedorcia è andato a trovarle lassù.
S. Eh sì, in cima ai colli. E quando hanno iniziato a partorire sono andate in Forcella Spe, sotto le rocce, dove si sentono protette, probabilmente. Loro più in alto di così non vanno.
D. Fino a quando sono state portate a Montanel?
G. Allora, stia attenta, ai miei tempi no. C’era sempre la monte di Montanel, quegli agnelli là, per esempio; a Baion sì, anche ai miei tempi, perché anche a Baion… Ma siccome dopo ce n’erano di meno, le portavano là, e c’era un certo Da Vanzo, il padre di Ulisse, che faceva il pastore. [torna su]
[169] T. D.M., anni 75, Lorenzago di Cadore, primavera 1999, riferisce che i corleti, oltre ad essere fabbricati da artigiani locali venivano acquistati da venditori ambulanti provenienti dalla Carnia. [torna su]
[170] T.M., anni 75, ex contadina, Lorenzago di Cadore, inverno 1999.
Avevo una pecora che ne faceva ogni anno due, e allora ho fatto anche presto a raccogliere la lana; altrimenti, una pecora per ogni casa, se non c’era uno scopo…..E durante la guerra mia madre ce l’aveva e io…Filava lei, e filavo…anch’io, mò, filavo.
D. Dopo mi dice come si fa, allora.
A filare? Eh guarda, filare non è mica niente di particolare, ma ci vuole l’arcolaio, e il fuso…
D. Ma allora, viene tosata la lana: e poi della lana cosa si fa? Mi dica proprio tutto, perché io non ho mai visto.
No. Allora, sta’ attenta: per tosare la pecora le si legano le gambe davanti e dietro, vero, le due dietro e le due davanti perché stiano ferme, su un tavolaccio. E poi con un po’ di delicatezza, per non fargli troppi buchetti, con le forbici le si tosa. E per filarla si conserva la schiena, la lana della schiena, che è bella, lunga e pulita. Poi con quell’altra si faceva cuscini o qualcosa…perché ce n’erano tante con le caccole….insomma, erano da scartare. Allora o le donne vecchie, magari filavano per far calzini o cose più secondarie. Ma per far venire fuori una bella lana…era la lana della schiena che er anche bella lunga. E poi bisognava filarla quand’era ancora da lavare, perché avesse dentro il suo grasso, che sarebbe la famosa lanolina, vero. Allora riesce bene. Se è filo lo si mette sulla rocca, la canapa, mia madre filava anche quella; se è lana, invece, la si tiene con la mano. Allora, vero, c’è l’arcolaio…Ha presente l’arcolaio, vero? E il fuso. Si andava a fissarlo dentro… Eh, adesso non ho qua l’attrezzo, ma…è bello filare, eh? Bisogna prendere un po’ la mano e dargli il ritmo giusto del piede sul pedale per far andare la corda, sì… [torna su]