Il pascolo a fondo valle
Fino agli anni 60-’65, nei mesi di aprile-maggio molti allevatori trasferivano, parà, i propri animali in tabià poco distanti dal paese, dove i bovini erano nutriti con il foraggio conservato nel fienile sovrastante la stalla. Il fieno dei prati di fondo valle, veniva conservato parte nei fienili situati in paese e parte nei tabià. Questo trasferimento permetteva un risparmio di tempo e soprattutto di fatica nel trasportare il fieno, tuttavia rendeva necessario recarsi due volte al giorno nel tabià per la mungitura e il trasporto in latteria. Alcune famiglie disponevano di fabbricati con annessa una piccola cucina che consentiva loro di trasferirsi e vivere nel fienile seguendo gli animali e i lavori della fienagione che, nei prati posti vicino al paese, iniziavano nei primi giorni di maggio. Questi fienili, indicati con il termine mas, fungevano perlopiù da ricovero per gli animali, ma non di rado avevano vicino una piccola porzione di terreno adibita a pascolo. I bovini venivano mandati a pascolare, molade a passón durante il pomeriggio ed erano soprattutto i bambini ad essere impiegati come pastori, una volta terminata la scuola. Nel comune di Domegge e di Calalzo gli informatori riferiscono della consuetudine, da parte del Comune, di mettere a disposizione delle diverse contrade e frazioni prati per il pascolo collettivo. Gli animali condotti nel primo pomeriggio, venivano riportati in stalla verso sera. Coloro infine che non avevano tempo o non possedevano terreno sufficiente da destinare a pascolo, erano costretti a portare i propri bovini a camminare affinché, dopo i lunghi mesi trascorsi fermi in stalla, si riabituassero all’aria aperta e le se iniambasse o sladinasse [59], ovvero si tonificassero e rafforzassero i muscoli delle gambe, in vista soprattutto dell’avvicinarsi del periodo d’alpeggio.
Non accadeva di frequente che un’intera famiglia o anche parte dei suoi componenti si trasferisse nei fienile fuori paese solo per accudire gli animali. Venivano di gran lunga preferiti dei quotidiani spostamenti tra l’abitazione e i tabià. Nelle stalle di proprietà di famiglie bacane, ricche, con numerosi capi da latte, solitamente c’era a disposizione una cucina per la produzione in proprio del formaggio e del burro e una cantina per la loro conservazione. Anche il pasto dei bovini in questo periodo andava lentamente modificandosi: si introducevano nella mangiatoia piccole quantità di erba fresca, sempre in vista dell’alpeggio, poiché un brusco cambiamento di alimentazione, ovvero il passaggio dal fieno all’erba, poteva causare non pochi problemi all’animale.
Il pre-alpeggio
Fino agli anni 1945-’55, in molti paesi del Cadore l’alpeggio avveniva in due tappe.
Verso la fine di maggio gli animali venivano portati in pre-alpeggio, in casere collocate ad un’altezza intermedia tra il fondovalle e la casera di monte vera e propria. Queste casere erano poste tra i 1000 e i 1500 metri di quota e a differenza di quelle di alta montagna, erano quasi sempre in luoghi più vicini al paese, a poche ore di cammino.
Si trattava perlopiù di pascoli frazionali, ovvero di luoghi in uso alle singole frazioni o contrade del Comune, forse corrispondenti ai beni regolieri di un tempo. [60] La presenza di queste strutture intermedie ed il loro utilizzo sono un ricordo sovente solo affidato alla memoria di poche persone. Infatti questi pascoli furono tra i primi ad essere abbandonati, quando il numero di animali iniziò a diminuire; in taluni casi da tempo si sono rimboschiti e gli edifici crollati o bruciati non sono più stati risistemati.
In queste casere pastori e bestie rimanevano per un breve periodo, fino a quando i pascoli d’alta montagna divenivano praticabili. Si trattava di edifici organizzati per accogliere i pastori e anche per la caseificazione. Per lungo tempo i ricoveri furono costituiti dai soli teath, strutture formate da tre pareti o da semplici tettoie, in cui le mucche venivano tenute durante la notte e per la mungitura. Nel comune di Domegge, verso la fine di maggio, gli animali venivano monticati rispettivamente nella casera di Costa de l Èrba a quota 1292 m., di cui oggi pochi hanno ancora memoria e a Therthenà, a quota 1050 m., oggi trasformata in rifugio. Quest’ultima, un tempo situata lungo la strada che porta a Dalego (ampia zona prativa, un tempo completamente sfalciata), bruciò nel 1939 e fu ricostruita qualche anno dopo, in un luogo poco lontano. L’ultima volta che fu monticata era il 1950.
Gli abitanti di Vallesella, frazione del Comune di Domegge, prima di portare il bestiame nelle due malghe comunali, pascolavano i propri animali a Coliniéi; della casera oggi non sono rimasti che pochi ruderi. A Pozzale, frazione di Pieve, i bovini monticavano verso la fine di maggio a Frappon, posta a quota 1500 m., si trattava di una malga intermedia prima di salire per l’alpeggio all’Antelao e all’Aiaron. Dell’uso della suddetta malga è rimasto un labile ricordo tra la popolazione e ciò indica che l’abbandono è avvenuto ormai da tempo. Gli abitanti di Sottocastello, che frequentavano la monte di Vedorcia, prima di arrivarvi si fermavano per un breve periodo a Tamarì a quota 1572 m., dove c’era una piccola malga munita di stalla.
Nel Comune di Vigo, il pre-alpeggio avveniva nella malga intermedia di Cianpo, a quota 1441 metri, la quale viene indicata in molti documenti come malga estiva. La montagna era frequentata a partire dalla seconda, terza settimana di giugno per circa venti giorni. Ancora
negli anni 1960-’70, prima di salire per l’alpeggio a Razzo, gli animali sostavano per una quindicina di giorni a Cianpo.
‘Ma noi no faseóne mai la stradha statale, dison,la stradha normale; faseóne senpre, anche… Inte pa stradha ca sì se dhèa normalmente, ma dhopo su pa i tornanti se dhèa su verso…Ròdha dhe Dhoana i ciamàa, una strada érta, dove che adhes vièn dhó l acquedhoto, e se dhèa su verso la parte de Dhoana , pò se dhèa su te la ‘sona de la Pissa e se ruàa sora la galeria là, no, e se ruàa…E se nò se dhèa su par Rodha de Val de Scósa, de la Val de Scósa, che dha Rodha dhe Dhoana, no, nvethi che dhì su a Dhoana, cuan che se ruàa su l Pian lassù, o se ienèa fòra su la stradha o se nò se dhèa su pa la Val de Scósa, ah; e se ruàa sempre n thima a Cianpigòto, ah. Disón, alora se farèa…E pò da thima Cianpigòto se dhèa dhó par Sóte Pioa, e se dhèa fòra pa le Macarine e se ruàa a Cianpo, no. Chela era la stradha cuan che se portàa le bestie. E par chel che l era lònga a nche pa le vace, no, parchè le ruàa su sfinìdhe, no’. [61]
A Calalzo gli allevatori della frazione di Rizzios praticavano una sorta di pre-alpeggio collettivo, portando i propri animali a pascolare su fondi comunali in Val d’Oten. I bovini erano tenuti durante la notte in stalle private e non in grandi stalle comuni, come accadeva altrove, mentre il latte veniva raccolto e lavorato in una latteria funzionante in questo periodo.
Fino ai primi decenni del secolo, si praticavano inoltre sistemi misti di pascolo con casere private e zone di pascolo comunali o talvolta su terreni privati pascolavano gli animali di una frazione intera del paese. Accadeva ad esempio a Domegge, in Val de Filippo posta sulla sponda sinistra della Piave. Ad Auronzo in Val Pian di Sera, [62] nella casera di proprietà della famiglia Segato, dove venivano accolti, prima di salire alla Malga di Misurina, i bovini di una parte del paese.
Situazione completamente diversa, e per certi aspetti unica, presenta Lozzo che monticava i propri animali, senza tappe intermedie, nell’ampio altopiano di Pian dei Buoi verso la fine di giugno. La diversa distribuzione altimetrica di questi pascoli determinava consuetudini differenti. Ad esempio da Casera Therthenà, posta fuori dalla strada che porta alla casera estiva di Doana, i bovini tornavano in paese per riposare una notte e ripartire il giorno dopo per la monte, accompagnati dai singoli proprietari. A Pozzale le mucche, dopo essere state portate dai proprietari a Frappon, salivano all’Antelao accompagnate dai soli pastori, e così accadeva a Cianpo per Casera Razzo.
L’organizzazione e l’amministrazione di questi pascoli era affidata alle medesime Commissioni di Monte e il loro funzionamento era del tutto simile a quello delle malghe estive. La frequentazione di pascoli intermedi, soprattutto nel periodo autunnale, al ritorno dalla monte, fu abbandonata prima di quella primaverile, tant’è che molti informatori non ricordano di avervi mai portato i propri animali.
Molti privati preferivano tenere i bovini nelle stalle, talvolta indicate come mass, di cui disponevano in diverse località e altezze.
La discesa dall’alta montagna per gli animali non vicini al parto era graduale e i bovini venivano fatti stazionare anche per pochi giorni in una o più stalle poste a diverse altezze, fino a giungere a quelle prossime all’abitato. Il pascolo autunnale avveniva, a differenza di quanto accadeva in primavera, anche su terreni privati; dopo lo sfalcio, gli animali erano condotti a mangiare il terthin, come veniva chiamata l’ultima erba che cresceva sui prati posti a fondo valle. Nella frazione di Domegge molti tabià erano collocati a Ponte, zona prativa ora completamente ricoperta dalle acque dell’invaso del Centro Cadore; da metà settembre ad ottobre le mucche di molte famiglie del paese rimanevano in questa zona. A turno i proprietari (solitamente le donne) scendevano in questi prati, prossimi al greto della Piave e vicini al ponte che la attraversava, e accudivano le mucche mentre pascolavano. Alla sera quando ormai erano state riportate in stalla e legate, ciascun proprietario provvedeva a portare del fieno ed a mungerle. Situazione simile si verificava nella frazione di Sottocastello, in località le Piazze e Rauza, dove si trovavano un grande numero di stalle e fienili oltre a un mulino e una segheria. La zona è oggi anch’essa coperta dall’invaso. [63]
Ad Auronzo la zona di San Marco, posta lungo la strada che porta alla malga di Misurina, alla fine dell’estate si popolava quasi a diventare un secondo paese. Molti dei tabià della zona, come ancora oggi è possibile vedere, erano forniti di cucina e le famiglie potevano soggiornarvi anche per periodi relativamente lunghi.
D. Tornando a cuan che l era su pa le casere. Le vace, cuan le ienèa smonticadhe disón, dhèele nbòta te stala o dhèele fòra n tin a passón?
– Cuan che le tornèa dhó da le malghe?
D. Sì .
– Adhes, era calchidhun che avèa la possibilità de molale fòra ancora fin che vegnìa bròse. Parchè dopo cuan che vegnìa la bròsa cossì no era massa indicato molale fòra così. Parchè prima de dhute le sbrissèa, dhèa a ris-cio de…parchè l era dhute …cuan che le venìa dhó da monte le era dhute in asciuta parchè le era piene, le avèa da fèi l vedhèl, no. Alora bisognèa cercà de tegnile anche…parchè se le dhèa a sbrissà che le dhèa a tonbole, le dhèa a ris-cio de perde l vedhèl. E perde l vedhèl, éro, volèa dhi perde un mucio de schèi, parchè l vedhèl se lo vendèa, era senpre na risorsa, nsoma, eco. Noi par esenpio quando che le vegnìa dhó, che noi ca aveóne senpre sete oto vace, éro, ca ònde che èi rimodhernà adhes. E se le molèa ancora n tin a passón inte ca par Bièia. E dopo avón na stala ca dhó, sóte là, sóte chi alberi là. Fèite conto da là cento metri n dhó in te la val, là. Èi na stala e tabià anche là, bèla stala e tabià; i l èi data a lui pò, che l à le ciàure là inte. E le porteóne là e là le moleóne fòra n tin al dopo pranzo, sasto, a magnà su, chel tin de …dopo seà l autuvói, dopo seà l secondo. Chel tin de erbeta là che vegnèa su ancora. Un ora, dhóe dopo pranzo cuan che era n bel sol. E le tegnieóne là a magnà l fien fin da i Sante, dopo i Sante, dopo i Morte là cossì, chele setimane là nsoma. Se era bel tenpo anche fin a la metà de dicenbre, de novenbre e dopo le tornone a portà ca. Cossì le se magnèa l fién là, se no bisognèa portalo fòra su la testa, éro; sì, col fas. Se magnèa l fién là e restèa là anche la grassa.
D. Chi che avèa la possibilità mandèa n tin a passon ste bestie?
– Éh sì. [64]
L’alpeggio
La monticazione vera e propria, che nel dialetto locale viene indicata con l’espressione parà a monte, iniziava nei paesi del Cadore, Oltre Piave ed Auronzo tra la fine di giugno e i primi giorni di luglio. La data fissata per la salita variava in base all’altitudine del pascolo e di anno in anno anche in base alle condizioni meteorologiche e dei pascoli. Coloro che all’alpeggio collettivo preferivano quello privato e a gestione famigliare erano pochi anche in passato. Questo tipo di scelta presumeva il possesso di un numero superiore di capi rispetto alla media, la disponibilità di proprietà prative da destinare a pascolo e soprattutto l’orientamento quasi esclusivo, della vita lavorativa della famiglia, verso l’allevamento e le attività agricole.
Nel comune di Lozzo, l’alpeggio iniziava l dì de San Giovani. Il 21 di giugno le mucche venivano monticate a Pian dei Buoi [65], ampio altopiano su cui si trovavano le diverse malghe per accogliere mucche, manze, vitelli, pecore e capre. Alcune di queste malghe venivano utilizzate durante l’alpeggio per la rotazione dei pascoli. Le mucche, che alla salita venivano portate alla Casera de le Armente, durante il periodo d’alpeggio in caso di scarsità d’erba, venivano spostate nei vicini pascoli di Casera Confin e Valdazene. Nel caso del comune di Lozzo, l’organizzazione dei pascoli con la rotazione del bestiame, in malghe poste ad altitudini poco diverse tra loro, rappresenta per certi aspetti un’eccezione nel panorama del Centro Cadore dove ampi pascoli disponevano sempre di una sola casera. Nel comune di Domegge, i pascoli estivi erano Doana e Baion. Fino ai primi anni del Novecento, come si legge nei regolamenti delle malghe conservati nell’archivio comunale, i due pascoli venivano monticati alternativamente dalle frazioni di Vallesella e di Grea, insieme, e dalla frazione di Domegge. Il viaggio verso la Monte di Baion durava poco più di quattro-cinque ore, mentre per raggiungere il pascolo di Doana il viaggio durava circa nove ore, percorrendo gli abitati di Lozzo, Pelos, Vigo, Laggio.
Per raggiungere malghe quali quelle di Doana o l’Aiarnola, di proprietà del Comune di Calalzo, e altre malghe ancora, era necessario affrontare lunghi spostamenti che prevedevano l’attraversamento di villaggi posti lungo la strada. Nei secoli XVII –XVII per poter attraversare i paesi era necessario che ciascun proprietario pagasse una sorta di pedaggio. Nel caso di Vigo, poiché il comune di Domegge non partecipava alla spesa di manutenzione della strada per malga Doana, i proprietari dovevano pagare per attraversare la strada comunale; verso la fine del paese di Laggio, prima di lasciare alle spalle le ultime case c’era una sbarra che veniva alzata dopo la riscossione del pedaggio.
Il lungo viaggio poteva essere effettuato in due tappe, fermandosi, ospiti in un fienile e in una stalla, affinché gli animali, poco allenati, non arrivassero alla malga stremati. La collocazione geografica e territoriale di questi pascoli testimonia un passato in cui più regole o villaggi avevano diritto di pascolo su un medesimo territorio.
D. Ma lui se pensa, da pupo, che ca a Laio era vace, così?
– Sì, sì. Me penso dhute le bestie che era ca. Son stòu tante òte a portà le bestie su te casera anche, no. Sì parchè alora se dhèa dhuto a pè, anthi, no se fasèa gnanche dhuto un viadho no; da la sera… Parchè primo se le usàa n tin ca dhó a magnà n tin de erba, no, parchè se nò dhuto de colpo le vace no dhèa… no dhèa bén. E pò la sera prima de la monticathion, alora dheóne inte, le porteóne fin circa a metà stradha, inte te la val ca, che i ne prestàa l tabià e le beteóne inte te tabià. Pò da bonóra dheóne inte, parchè le vace stentàa a caminà, e pò le porteóne su, ah. E sicome che cuan che le dhèa… le monteàa, le dhèa sù e le dhèa diretamente a Cianpo, parchè a Ratho no era erba, no, chel periodo l erba… E a Cianpo che l é a mile sié l erba l era bèlo pì òuta. Alora se dhèa su e se dhèa dhó a Cianpo, alora la strada l era ancora pì lònga no. Parchè da Laio a Cianpo l era lònga nsoma. E chi che avèa possibilità i le ciareèa su in calche camion, su calche ròdha, sì alora la strada no l era asfaltadha, no era niente, no era mezzi…Nsoma, era calche camion che avèa portà su la roba pa i pastor, no, alora cuan che l tornàa ndrio l ne montàa su anche noi che reóne stadhe a portà le vace. Le vace, le mande…Parchè noi avón, aveóne cuatro casere funzionanti, proprio…col mandron e dhuto, no. E pò aveóne una, solo la casera disón. Aveóne la casera de Soto Piòa, che é la prima, no, che l é nthima a Ciampigòto, ca come che se rua sù… Se fa dhuti i tornanti, come che se rua su la piana, come che se ciapa la piana par dhì al refugio, no, su la sinistra se va dhó thinchethènto metri e là se rua te la prima casera, che là era le mande. Saràe le mande, saràe stòu chele prima de le vace disón, no. Dopo se dhèa avanti ancora n tin verso l refugio, e là era le vedhèle, la casera dhe le vedhèle che i ciamàa, i ciamèa la casera de la Federata. Che anthi, al nome no l é gnanche…Noi ciamón la Federata, ma al sò nome vero e proprio… al me sfuge adhes che… no me penso gnanche pì che nome che l à, parchè é n nome n tin che no i l à mai pronunciòu ca, ma su le carte l é segnòu come casera de ….Èh, no me penso pì. E dopo avón la casera de Ratho, che chela l é pì avanti ncora, no.
D. L me à dhito che cuan che parteà, ve fermeà prima a un tabià, no?
– Sì, a metà stradha circa, inte par Selva, così…
D. Ma dhute?
– No dhute, parchè no era par dhute. Era chi che avèa le vace n tin pì dhébole, disón, chi che avèa le vace che stentàa a caminà. Chi che magare no l aèa mai portadhe fòra te la canpagna prima, no, alora i dovèa fèi metà viadho a l òta, disón, parchè no le se strache massa. Parchè se nò le tendèa a perde l late no, parchè…
D. Èrelo na stala del Comun…?
– No no, tabias privati così, no. I tabias che é inte par la val . [66]
Fino al 1100-1200 la maggior parte degli attuali paesi del Cadore possedeva pascoli in comunione con altri villaggi. Da un manoscritto conservato nell’Archivio del Comune di Domegge e datato 5 giugno 1216, si ha notizia che i pascoli di Doana, Baion, Londo, Croce, Collesello e Pontigo erano di proprietà comune alle vicinie di Domegge di Cadore, Candide e San Nicolò in Comelico. Tra il primo paese e gli altri due c’è una distanza di circa venticinque, trenta chilometri. In quell’epoca i pascoli vennero divisi tra le tre regole e alla regola di Domegge toccarono Doana e Baion [67].
La proprietà dei pascoli era ed è comunale, un tempo della Regola. Il patrimonio delle regole passò in amministrazione ai ‘comuni’ in seguito alle riforme napoleoniche nel 1806.[68]
Fino alla fine dell’800, primi decenni del ‘900, la gestione di molte malghe era affidata ad appaltatori per lo più privati. Ogni tre o cinque anni, in base al regolamento, il consiglio comunale poneva all’asta la gestione delle malghe, che venivano date al miglior offerente. In questo periodo di transizione tra i due sistemi di gestione, accadeva che malghe appartenenti al medesimo Comune fossero sottoposte a regimi di conduzione differenti. Negli anni 1895-’96-’97-’98 il Comune di Lorenzago affidava ad appaltatori privati le Casere di Pian de Sire e Losco,[69] dove monticavano rispettivamente 130 vacche nella prima e 85 nella seconda, più 130 capre e 84 pecore. Negli stessi anni nelle Casere di Auronzo (Maraia e Misurina), Vigo (Razzo e Campo) Lozzo (Sovergna e Pian de’ Buoi’) la gestione era ‘ad economia’.[70] All’appaltatore toccava sottoscrivere una serie di regole stabilite dal consiglio comunale, il quale dal canto suo nominava un controllore. Nel regolamento venivano indicati i giorni di monticazione e smonticazione e i giorni destinati alla misurazione del latte. Erano stabilite le norme riguardanti l’igiene e la lavorazione del latte a cui il casaro doveva attenersi; al Comune appaltatore toccava l’onere della manutenzione degli stabili e dei pascoli.
Da alcuni documenti si intuisce come la gestione privata di queste malghe comportasse una minore tutela degli interessi degli allevatori a vantaggio dell’appaltatore. L’aspetto più importante riguardava l’eccessiva scrematura del latte, al fine di fabbricare più burro da vendere, la quale cosa danneggiava la produzione di formaggio e naturalmente gli interessi degli allevatori. La stessa pesatura del latte durante la gestione privata creava problemi, in quanto l’appaltatore nel giorno della pesa portava le mucche nei pascoli meno ricchi così da ottenere una resa del latte inferiore.
Di questa situazione riferisce più volte il Comizio Agrario di Auronzo, incaricato di visitare i pascoli estivi del distretto, a cui appartengono i Comuni di Auronzo, Vigo, Lorenzago, Lozzo, Padola, S. Pietro, S. Stefano e Comelico Superiore. Nella relazione datata 1870 si legge:‘ Non sarà possibile ottenere buon formaggio finché, il fabbricatore di formaggi e quello del burro avranno interessi separati. Uno desidera farsi amore col burro e cerca smagrare il latte, l’altro per la sua parte brama fare molto formaggio col lasciarlo poco cotto…L’appaltatore desidera molto burro perché lo vende fortemente e senza disturbi, poco curando il formaggio…[71] E ancora nella relazione del 1895 si legge ‘Osservazioni generali: Il sistema di conduzione per appalto è assolutamente incompatibile col miglioramento e colla coltivazione dei campi. Quali siano gli obblighi del capitolo d’appalto, è evidente che l’appaltatore in fin dei conti non ha altra responsabilità, salvo quella di consegnare in fine della stagione ai soci la stabilita quantità di prodotti misurata a peso, senza punto preoccuparsi della qualità dei prodotti stessi…Concludendo, il voto della Commisione è che tutte le malghe vengano condotte per economia, e che tutti i consigli Comunali avochino a sé la facoltà di nominare l’amministratore e di stabilire le norme di conduzione delle malghe.’ [72]
A partire dai primi decenni del ‘900 la gestione di quasi tutte malghe venne affidata a commissioni composte da uno o più amministratori e da uno o più controllori, nominati da ‘gli aventi animali’.[73] Per molti paesi la data entro la quale la commissione doveva essere nominata era per tradizione il 19 marzo, come ricordano alcuni intervistati di Calalzo e Domegge
La suddetta commissione aveva il compito di nominare i pastori, i casari e gli uomini di fatica da occupare durante la stagione estiva. Il numero di uomini impiegati variava da malga a malga e dipendeva sostanzialmente dal numero di animali ‘caricati’ [74] nel pascolo. Spesso erano i regolamenti stessi a definirne il numero. Agli amministratori delle malghe, in dialetto coietro/cuetro, toccava il compito di assistere alle operazioni di mungitura del latte e spartizione dei prodotti, nonché di presentare al Consiglio Comunale, a fine stagione, il prospetto delle spese di gestione. Gli amministratori erano solitamente uomini di provata esperienza e con un numero di capi bestiame in stalla al di sopra della media. Nel caso di comuni composti da più frazioni, gli amministratori delle malghe erano più d’uno e solitamente provenienti dalle diverse frazioni; questo per garantire un’equa rappresentanza a tutti i villaggi che da sempre alimentavano e alimentano un certo sentimento di campanilismo e rivalità.
Il lavoro era soprattutto maschile. La presenza femminile riguardava i momenti in cui gli animali venivano fatti salire in alta montagna o riportati a casa. Le donne venivano inoltre impiegate nel trasporto dei prodotti caseari a fine stagione e di quanto poteva servire ai pastori e ai casari durante il periodo di alpeggio. Erano questi i cosiddetti noli, che venivano fatti senza l’ausilio di alcun mezzo di trasporto, portando in spalla la gerla carica di prodotti alimentari, indumenti o altro. Quando il trasporto venne effettuato, dopo gli anni ’40, con il carro trainato da cavalli o con altri mezzi, questa fatica venne affidata agli uomini
Nel diario, tenuto probabilmente da un pastore, assunto nella malga di Aiarnola, del Comune di Calalzo, si legge di una certa Marieta impiegata come aiutante. Si tratta comunque di un’eccezione[75]
Fino agli anni 1955-’60 la salita dei bovini alle malghe avveniva a piedi. L’arrivo degli animali era preceduto da quello dei lavoranti (anche tre giorni prima come si legge in alcuni regolamenti), i quali portavano con sé gli strumenti di lavoro ed il pagliericcio per dormire, oltre agli effetti personali tra i quali le stoviglie. Ogni famiglia provvedeva a parà a monte i propri animali e la partenza era fatta a scaglioni.
Nel caso di casere lontane la partenza avveniva di notte con la lanterna, l feral. Non c’era un’ora stabilita, ma alcune donne ricordano che era consigliato partire prima dell’una per evitare di incontrare la scòla de i morte. [76] Il viaggio lungo e faticoso, era reso più difficoltoso dall’ostinazione di alcune mucche a non camminare, per spronare gli animali i proprietari ricorrevano a piccole manciate di sale somministrate poco alla volta lungo il cammino.
Ad Auronzo la salita alla malga di Misurina era preceduta da una tappa a Palùs. Il pomeriggio del giorno precedente a quello destinato alla monticazione, i proprietari del bestiame si recavano in questa località posta lungo la strada per la Casera e come ricordano ancora in molti, dopo aver legato le mucche in stalla o all’aperto, trascorrevano la serata dando vita ad una festa con musica e ballo. Alla mattina presto tutti insieme ripartivano verso la malga. Le strade che oggi portano alle diverse casere non corrispondono spesso alla strada originaria. Così a Lozzo il vecchio sentiero percorso dagli uomini e dagli animali per giungere alla Casera delle Armente, detto Troi de le armente [77], venne da molti abbandonato per la strada militare che offriva indubbi vantaggi. Per giungere a Doana, anche dopo la costruzione della strada di Razzo nei primi decenni del secolo, uomini e bestie giunti a Nantoia iniziavano la ripida salita del Lavinà de le Stèle. L’uso di una strada rispetto ad un’altra era dettato non sempre da ragioni di economia o convenienza ma anche di attaccamento e difesa delle vecchie consuetudini. Un anziano pastore e casaro di Domegge ricorda che dopo la costruzione della nuova malga e strada nella monte di Baion, i vecchi della frazione di Deppo continuavano a percorrere l’antica strada, passando davanti alla casera originaria per raggiungere quella nuova.
Non vi erano particolari rituali legati alla preparazione dell’animale prima della partenza per la malga, alcuni giorni prima venivano tagliate le unghie [78] e alcune famiglie usavano impartire ai propri animali la benedizione con acqua santa. Al collo veniva legata la catena e appeso il campanaccio, con il collare solitamente in legno e il nome o il segno di famiglia incisi o impressi a fuoco. Nella maggior parte delle stalle o delle case del Centro Cadore sono oggi visibili campanacci, tantèi o sanpogne [79], sostenuti da collari, canaule\còstole, in ferro o cuoio; si tratta di ‘innovazioni’ introdotte in modo decisivo a partire dalla seconda guerra mondiale in poi. Prima i collari erano in legno per lo più di larice, fabbricati da pastori nelle ore di pausa o dagli uomini durante l’inverno. [80]
Giunti alla malga ciascun animale veniva registrato e assicurato; infine ogni mucca era affidata in custodia ai pastori, portata in stalla e legata. Tutti gli informatori ricordano che le mucche che salivano alla malga per la seconda volta ricordavano il posto in stalla assegnatogli
l’anno precedente, e vi si recavano da sole. In molti pascoli c’era la tradizione di far baciare la mussa [81] alle ragazze che vi andavano per la prima volta. A Calalzo, come ricorda un’anziana signora, i vecchi usavano far toccare ai bambini con la fronte la pietra che segnava il confine della monte di Aiarnola, quasi a volerlo imprimere fisicamente nella mente dei giovani; si tratta in ogni caso di un gesto che la dice lunga sulle antiche dispute riguardanti le confinazioni dei pascoli.[82]
Molti casari o pastori accennano all’usanza di benedire le malghe e gli animali il primo giorno di alpeggio. Si trattava di gesti e riti augurali, affinché il bestiame a loro affidato si conservasse sano e produttivo fino alla riconsegna ai proprietari. A tal proposito si ricorda che nel primo giorno di alpeggio, prima della mungitura, si bruciava sulle braci ardenti, della cera benedetta, presa in chiesa; il fumo veniva diffuso in tutti gli edifici per benedire uomini e animali.[83] A Lozzo questa pratica avveniva in presenza delle donne che accompagnavano le benedizioni con preghiere e recitando il rosario. A Razzo, fino a venti, trenta anni fa, il prete di Vigo saliva ogni anno per celebrare una messa. Inoltre il capo pastore, bolco, ogni mattina prima di liberare gli animali e avviarli al pascolo, tracciava una croce a terra con il bastone :’ Al se betèa su l baston e l disèa su la preghiera, l padre nostro, racomandàa sto bestiame, pò fasèa l segno de la cros come, come… e l tiràa le stanghe e partia le bestie‘ [84]
L’alpeggio era infatti fonte di preoccupazione per i proprietari. Le mucche, durante l’estate, dovevano affrontare lunghi spostamenti alla ricerca di pascoli nuovi e spesso i sentieri lungo i quali camminavano erano impervi e presentavano pericoli. Inoltre il cambiamento di trattamento, di abitudini e alimentazione rispetto alla stalla, potevano creare dei problemi di adattamento da parte delle bestie che diminuivano di peso e producevano meno latte. Non pochi informatori riferiscono dell’utilità di mandare le mucche al pascolo gravide e perciò con meno latte, affinché non venisse sprecato strathà, scavethà.
La disposizione delle casere e dei pascoli
Sulla monte si trovava la casera, solitamente un edificio ad un piano, che ospitava i locali per il deposito e la lavorazione del latte e per la conservazione dei prodotti. Quest’ultima stanza, in dialetto indicata come thelèi, rivestiva una grossa importanza, e per essere adatta alla conservazione veniva solitamente collocata a nord. Sono ancora visibili in certe casere pareti formate da tronchi con larghi spazi tra loro per permettere all’aria di circolare e all’ambiente di essere sempre fresco. Internamente vi erano delle scansie per riporre le forme di formaggio e le ‘palle di burro’ [85]. Nella maggior parte delle malghe la cantina per il formaggio e quella per il burro erano tenute separate.
Nell’edificio trovavano inoltre posto le stanze destinate ai pastori per mangiare e dormire, queste ultime collocate solitamente al piano superiore. Si trattava di ambienti arredati con essenzialità; la cucina era dotata del larin, un focolare in pietra sormontato da una grande nappa e attorniato da panche; nelle camere c’erano i letti con il materasso costituito dal pagliericcio di brattee, paierith de bréne, o ancora più rusticamente con i rami di pino, dassa, o erba secca.[86]
La stanza per la produzione del formaggio e del burro era spesso la stessa occupata dai pastori per mangiare e cucinare il cibo. Era provvista di un focolare con la mussa, un palo rotatorio dove appendere la caldaia, ciàudiera\caldiera. Il palo, ruotando, permetteva di mettere e togliere la caldaia dal fuoco. Addossata ad una parete c’era la zangola rotatoria per la fabbricazione del burro pégna e il tavolo per la lavorazione del formaggio tabio.
Poco distanti dalla casera c’erano le mandre, un tempo completamente in legno, per accogliere gli animali per la mungitura e durante la notte. Nella monte di Misurina le mandre sono disposte ad ottagono, con al centro un piccolo edificio dove veniva effettuata la pesatura del latte. Le stalle dei pascoli di Razzo e Doana sono dislocate una di fronte all’altra, quelle di Baion formano un trapezio irregolare. A Vedorcia vi è un’unica grande stalla posta di fronte alla malga. Nel pavimento di queste stalle, in sassi e terra battuta, era ricavato un canale, di raccolta degli escrementi, leggermente in pendenza per favorire lo smaltimento dei liquami. Davanti alle stalle veniva predisposto un recinto di legno che racchiudeva uno spazio, talvolta indicato con il nome di mandra, entro il quale venivano tenute le bestie poco prima di partire per il pascolo. Oggi i pascoli d’alta montagna del Centro Cadore presentano dei ricoveri notturni per gli animali in muratura, muniti di piccole feritoie e grandi porte. Ancora verso la fine dell’800 primi anni del ‘900 gli animali trascorrevano la notte all’aperto o al riparo di una tettoia: ‘ Gli animali bovini in qualche montagna godono del beneficio di un coperto e di una parete di muro, altre sono sprovviste affatto e sono contente di avere uno steccato per custodirle di notte’ [87]
Ad ogni malga era riservata una fonte d’acqua, indispensabile per abbeverare gli animali ed anche per la caseificazione e, non meno importante per la pulizia delle stalle e la concimazione dei pascoli. Accanto ad ogni casera si trovava il festin, una fontana di legno oggi sostituita da vasche in cemento o in vetroresina. Infine adiacenti alla casera c’erano i pascoli grassi e ben concimati che venivano indicati con il termine di cianpé\cianpevié\cianpigol.
In malga lavoravano un casaro, mistro, e un aiuto addetto alla produzione del burro, uno o più uomini di fatica e un numero variabile di pastori, in base ai capo bovini monticati. La maggior parte degli uomini impiegati proveniva da paesi del Centro Cadore. Il Comizio Agrario di Auronzo reputava cosa di grandissima importanza, che il casaro fosse originario del paese proprietario della Monte, poiché egli poteva vantare una profonda conoscenza dei pascoli e delle qualità delle erbe, al fine di rendere un buon servizio alla comunità.[88] Tuttavia lo scambio di manodopera tra paesi confinanti fu un fenomeno diffusissimo almeno fin dall’800, soprattutto per i casari, come lo testimoniano i registri di Monte. Dalle interviste raccolte sembra di capire che, nonostante l’insistente rivalità tra i diversi villaggi, non vi fosse una spiccata tendenza a favorire gli autoctoni rispetto gli esterni e ciò era dettato soprattutto dal bisogno di avere manodopera specializzata e competente.
Esisteva una gerarchia tra i pastori che vedeva al primo posto il bólco, il capo pastore [89], poi il secondo pastro [90], il secondo pastore che in caso di bisogno faceva le veci del primo, e poi di seguito gli altri. La nomina a primo pastore dipendeva dall’esperienza acquisita e pertanto dall’età, così si riscontra che abitualmente alla gerarchia per ruoli e compiti corrispondeva una gerarchia per età. Spesso, coloro che in passato intrapresero questi mestieri lo fecero in giovane età e non raramente si trattò di una tradizione familiare. Per molti ragazzi l’apprendistato avveniva custodendo prima gli animali più giovani o pecore e capre. La responsabilità della salute e incolumità delle bestie era affidata al primo pastore. Era abitudine che esso, in compagnia del secondo pastore, trascorresse la notte nelle stalle a sorvegliare gli animali e per assicurarsi che non si slegassero dalla catena. Nella stalla, infatti, vi era un luogo riservato alle daghe dei pastori, letti alti da terra e formati da tavole di legno dove veniva adagiato il pagliericcio. Toccava infine, al capo pastore decidere di giorno in giorno la zona di pascolo, in base alla disponibilità dell’erba, tuttavia ogni anno si seguiva un ordine di pascolo che veniva tramandato da pastore a pastore.
A casera il ruolo più importante era occupato dal mistro, da cui dipendevano l’aiuto e gli altri lavoranti. In alcune malghe, come Misurina, dove monticava un numero consistente di animali e venivano impiegati molti uomini, c’era il bocia, un ragazzo giovane addetto a diversi lavori tra i quali quello di portare il pranzo ai pastori quando si fermavano al pascolo anche a mezzogiorno. Il trattamento finanziario era pattuito al momento della nomina e variava secondo il ruolo occupato. A tutti spettava una certa quantità di latte e formaggio, in alcuni casi il consumo poteva essere fatto quotidianamente, in altri, alla fine della stagione ognuno portava a casa una o più forme di formaggio. Latte e latticini erano un tempo le sole ‘merende’[91] passate agli uomini durante l’alpeggio, per tutto il resto dovevano provvedere da sé. Solo in tempi più recenti l’Amministrazione provvide a rifornire il pasto completo.
Tra i compiti più faticosi c’era la mungitura, monde, che in alcuni casi era compito anche del casaro. Ogni pastore aveva una media di 15 – 20 vacche da mungere, mattina e sera; al primo pastore, abile mungitore, toccava un numero anche superiore, tant’è che alcuni erano costretti a fasciarsi i polsi con cinghie di cuoio per limitare il dolore conseguente allo sforzo delle mani. La mungitura avveniva dopo aver legato le bovine con la catena ed era eseguita stando seduti su uno sgabello munito di una sola gamba e di una cintura da legare intorno alla vita[92], ciò permetteva degli spostamenti più rapidi e di avere le mani libere. Il tempo occupato da questa operazione era di circa tre ore e andava diminuendo con il passare delle settimane, quando le mucche iniziavano a produrre meno latte, anche a causa del parto ormai vicino.
A questo proposito i regolamenti prevedevano che le bestie che dovevano partorire nel mese di settembre, venissero riportate a casa anticipatamente per evitare parti prematuri.
Il latte appena munto veniva versato in contenitori capienti sui quali erano posti dei colini per filtrarlo. Terminata la mungitura, dopo una breve colazione a base di latte, caffè, polenta o più raramente pane, i pastori radunavano gli animali nello spazio recintato antistante la stalla e poi partivano per il pascolo. Prima di aprire le stanghe, stange, sère, che chiudevano il recinto, il primo pastore si metteva davanti alla mandria e faceva uscire piano piano i capi di bestiame. Il termine con cui si indicava la direzione data alla mandria per il pascolo stabilito era girale, fèile girà. Alla partenza e al ritorno dal pascolo venivano messe davanti alla fila le mucche più vecchie e ubbidienti, che conoscevano la strada e facevano da guida al resto del gruppo. Giunti al pascolo gli uomini dovevano disporsi in modo da controllare gli animali e impedire loro di mangiare l’erba fuori della zona stabilita.
‘ “Ciò, ciò, ciò” par esenpio chel che é davante, l primo pastor l ciama “ciò, ciò, ciò”, senpre co l sal pronto, éro, par dai a una, a chel àutra, a st àutra, chela che i capita visin. I dasèa l sal. I caminàa i dhèa su na ‘sona, par esenpio, su na ‘sona come ca, ciapàa su, un se betèa là dhó, un se betèa lassù, chel àutro là via, in cuatro e cuan che le ruàa i le voltàa, de módho che le stase inte te sto tòco de tera, eco. E come doman i tornàa a canbià ‘sona, ah. Ogni giorno un tòc de tera de módho che le pòsse magnà, eco, ste bestie. E dopo man man che tornàa su a cresse al secondo colpo, tornàa a fèi l giro fin che venìa l sete de setenbre che le venìa a ciasa’ [93]
I primi giorni di pascolo, affinché gli animali si abituassero alla vita all’aperto e a camminare venivano lasciati pascolare negli spazi adiacenti alla malga i cianpé\ cianpevié. In molte malghe era abitudine mandare gli animali al pascolo nel tardo pomeriggio; era il così detto di in thena. Le mucche venivano condotte al pascolo di prima mattina e riportate in stalla nella tarda mattinata. Dopo la mungitura, verso le cinque, le sei del pomeriggio, venivano portate nuovamente al pascolo e lasciate fino a quando scendeva il buio. Il di in thena non era praticato in tutte le malghe, e dipendeva dalla disponibilità di pascoli estesi ed aperti poco distanti dalla casera. L’organizzazione del pascolo, la scelta delle prendère, ovvero delle singole porzioni di pascolo quotidiane, il lavoro dei pastori e la loro permanenza giornaliera nelle diverse zone variavano di malga in malga e dipendevano dalla geografia della montagna. In thena venivano portate le mucche della casera di Piandesire di proprietà di Lorenzago, di Razzo di proprietà di Laggio e di Misurina di proprietà di Auronzo. Nella malga di Doana, dove non era praticato il pascolo vespertino, il toponimo Thena, indica la zona di pascolo dove un tempo, quando la gestione delle malghe era ancora appaltata a privati, venivano portate di sera le mucche, nel giorno precedente a quello alla misurazione del latte.
D. A Pian de Sire farèelo l pastor?
– No, no. Ero l aiutante apèdhe Checo.
D. Le vace le ièn portadhe te stalói leàdhe a che ora?
– Vers le tré e mèdha-cuatro.
D E dopo no le va pì fòra?
– No, chela sera no, èh. Eh, ma le sta fòra da le oto a le cuatro da la sera, le magna…
D. No se usèa ca mandale fòra n tin anche a la siéra, così, a théna?
– No, no. L primo periodo, par esenpio in Pian de Sire alora sì, parchè là le stasèa ventidue giorni solamente che là; là atorno, ventidue giorni. Alora i le molàa da bonóra a le oto, fin le dhiese, parchè che… n primo tenpo, no le pó magnà come che le vó anche le bestie, ghe n é dhe ingorde eco, de chele che magna esuberatamente, e pò le sta mal e nsoma… é un conpito anche chel de, de…savé aministrale anche ste bestie, parchè…E pò vó tanta passión, vó passión.
D. Là a Pian de Sire i le mandèa fòra fin a le dhiese, e dopo?
– Dopo i le serèa, i le tornàa a leà, e pò da da sera i le mondèa, da le cuatro a le sié i le mondèa, parchè d istadhe, d istadhe é ciaro fin tardhe, a le siè i le molàa e i tornàa a béte inte a le oto prima che viene scuro, àutre dhóe ore.
D. Elo un modo dhe dhi cuan che se le manda fòra a chel ora? Elo mandale a théna?
– Sì, sì a théna, in théna. In prendèra é bonóra, prendèra i ciama. Parchè alora i le tòle ca, come ca par esenpio i le porta anche fin cuasi a Làeo, a pascolà. E là le va direte fin che le rua al pònte, par esenpio, fin dhó al pònte ca dhó. Là i le ferma e dhis ‘Avé da sta da ca n drio’. Dopo dhoman i le torna a molà fin un tòco in su verso Làeo, e avanti un tòco al dhì i ghe da, no. Èh sì.
D. Alora bonóra in prendèra…
– E da la sera a thena.
D. Anche a Dhoana e Baion usèili fèi così?
– No, no. A Baion e Dhoana no, parchè no é… al cianpè, i ghe ciama, al ciampè ònde che sta le bestie ultimamente, nsoma cuan che le vién, che le rientra da la prendera le sta te cianpé, un ora, dhóe tré . I pastor se bicia dhó un par cianton, e i sta là parchè i ciama ‘chi che slissa l baston’ a i pastori, ‘chi che slissa l baston’. Alora chi i sta là fin che é ora dhe … Dopo i dha un fis-cio, chel da la testa dha un fis-cio e alora i le unisse dhute e i le manda inte pan pian, no. [94]
La vita in malga
La vita del pastore era dura e faticosa per il carico di lavoro da svolgere quotidianamente e per le difficili condizioni di vita tra scomodità e solitudine. Dalla lettura del diario tenuto da un pastore di Aiarnola, si comprende il peso dell’isolamento e della noia di giornate sempre uguali e dalla difficoltà causata da un tempo freddo e piovoso che metteva a dura prova la resistenza degli uomini nello svolgimento di questa attività. ‘Luglio 8, Prà della Monte. E sempre piove. L’altra notte ha piovuto di seguito, questa mattina poi è burrasca. Siamo alzati alle 4,30, terminato di mungere alle 7,30 e al pascolo alle ore 8,25. Siamo andati fuori per sotto la strada fino a Pian delle Antenne, indi in Val del Laresato ed il Prà della Monte ore 10. Oggi tempo abbastanza bello, ma non troppo caldo. Dai Prà della Monte l’abbiamo voltate in dentro per i Lanpedies della Tempia, e s’intendeva in Col delle Laste, ma quel da Padola ha seguitato a parare, così siamo andati dentro direttamente, e arrivati a casera alle ore 2, e legato alle ore 5’[95]
Con poche varianti, questo è il diario di ogni giornata di alpeggio. Il brutto tempo, il freddo e la pioggia, non impedivano al pastore di uscire al pascolo e l’unico riparo era una pelle di capra messa sulle spalle, le mucche potevano invece trovare riparo nei boschi. Dopo le lunghe ore di pascolo non solo gli uomini ma anche gli animali ritornavano in malga stanchi e stremati.
Non va scordato infine che la neve poteva cadere nei pascoli d’alta quota anche durante l’estate. Nel caso di nevicate troppo abbondanti, che lasciavano presagire tempi lunghi per il ritorno nei pascoli, in alcune monti c’era la possibilità di trasferire più in basso gli animali; altrimenti si provvedeva a portare il fieno dal paese alle malghe. Nel comune di Laggio, in caso di neve, i bovini venivano condotti da Casera Razzo in località Nantoia ad un’altitudine di 1450 m circa. Il Comune di Domegge aveva diritto di portare i propri animali dalla Monte di Doana a Costa d’Oro ad un’altezza di poco più di 1000 m, in territorio del Comune di Vigo, e tenerli al pascolo per tre giorni.
Uno dei momenti più importanti del periodo d’alpeggio era rappresentato dalla pesatura del latte. In ogni malga venivano fissate delle date, stabilite solitamente per regolamento, nelle quali si effettuavano la pesatura del latte prodotto in malga, per stabilire poi una media di resa per ciascun capo e determinare di conseguenza la quantità di prodotto spettante ad ogni proprietario. Negli anni 1930-’40 il latte veniva pesato in quasi tutte le malghe tre volte nel corso dell’alpeggio: alcuni giorni dopo la salita degli armenti, verso la metà del periodo di monticazione e alcuni giorni prima del ritorno a casa. Nei regolamenti del secolo scorso si legge di due pesature da effettuare all’inizio e alla fine della stagione. Nella malga di Misurina già negli anni ’40 il latte di ciascun capo di bestiame era pesato quotidianamente. Ai proprietari delle mucche e ai pastori era assolutamente proibito somministrare alcun cibo prima della pesatura del latte, fatta eccezione per un po’ di sale. Per coloro che contravvenivano a tale disposizione era prevista la detrazione di un quarto del latte. In alcune monti del Centro Cadore era usanza che i proprietari delle vacche salissero in malga per controllare le operazioni di pesatura. A Pian dei Buoi i proprietari delle mucche si recavano a monte per assistere alla pesa serale. Un tempo, come si legge nei regolamenti degli ultimi decenni del’800 [96], in ciascuna malga venivano impiegati due casari, un addetto alla produzione del formaggio e uno del burro. Dai primi anni del ‘900 in quasi tutte le malghe comparve un unico casaro, affiancato da un aiuto; ciò potrebbe indicare che quando la gestione delle malghe passò dagli appaltatori privati alle amministrazioni comunali, vi fu una diminuzione della produzione di burro che rappresentava fonte di grosso guadagno per gli appaltatori.
La produzione dei latticini in malga avveniva durante la mattinata quando il bestiame era al pascolo. Nella malga di Misurina, come riferisce Luigi Calligaro De Carlo che fu casaro in quella malga nel 1943, nei primi venti giorni d’alpeggio il formaggio era prodotto due volte al giorno. Il latte appena munto veniva versato in contenitori di legno, poi sostituiti con altri di rame, ed immerso nell’acqua corrente in lunghe vasche collocate in ambienti freschi e umidi. Durante la notte, per effetto del freddo, la panna affiorava. La lavorazione del formaggio in malga era sostanzialmente la stessa di quella dei caseifici nei paesi, anche la strumentazione risulta simile, tant’è che in molti casi era la latteria che prestava o affittava gli strumenti per l’alpeggio. Il latte usato per la caseificazione doveva essere stato munto, mondù\mondesto, la sera prima e quindi scremato, sbramòu\à. Il latte era versato in grandi caldaie, appese alla mussa. Si procedeva quindi a scaldare il latte ed effettuare tutte le operazioni necessarie per ottenere la massa di formaggio fresco da riporre nelle forme. La rottura della cagliata, taià su la caliata, veniva effettuata con l trisol, un bastone nella cui parte terminale erano inseriti ortogonalmente, in piccoli fori, dei denti. Nei caseifici di fondovalle al trisol, usato anche nell’ambito domestico, era preferita la lira. I scatui, le fasce per dare forma al formaggio, in malga come in latteria, fino agli anni ’50, erano in legno di larice o faggio, poi di metallo. Tuttavia in passato sembra vi fosse l’abitudine di usare delle fasce di corteccia d’albero piegate a formare un cerchio. Di questo uso si fa menzione in alcuni documenti della metà dell’800 dove tale pratica viene assolutamente proibita perché scarsamente igienica. Le forme di formaggio venivano pressate ponendo delle tavole di legno e dei grandi sassi su una pila di forme, infine salate e riposte nella cantina. Dal siero residuo della lavorazione del latte veniva ottenuta la ricotta. In molti paesi era considerata un prodotto principalmente di malga dove, procurarsi la legna per portare il siero a 90 gradi, era più accessibile e poco dispendioso. La ricotta veniva consumata fresca o più spesso affumicata sul focolare.
Il burro era prodotto con una zangola rotatoria manuale [97] e, dopo essere stato amalgamato con le mani per privarlo del siero residuale, era solitamente confezionato in panetti rotondi o riposto in stampi rettangolari decorati nelle pareti interne, per imprimervi sulla superficie e sui bordi dei motivi decorativi ed il nome della malga produttrice. Solitamente il burro di malga era considerato un prodotto d’altissima qualità, ottenuto esclusivamente dalla centrifugazione della panna e con un caratteristico colore giallo determinato dalle erbe d’alta montagna di cui si nutrivano le mucche. Nella casera di Misurina, già negli anni ’40 vi era la disponibilità di corrente elettrica e pertanto la malga era dotata di una scrematrice per il latticello[98]. Tuttavia nella maggior parte dei casi le due produzioni di burro (di pura panna e da scrematrice) erano tenute separate.
Alcuni lavoratori avevano compiti che richiedevano una minor specializzazione, come gli addetti al reperimento della legna e alla pulizia delle stalle. Lo smaltimento del letame e la conseguente concimazione dei pascoli erano assai importanti.
Le stalle venivano pulite dal letame, raccogliendolo con le forche e infine lasciando scorrere dell’acqua[99] che lavava per bene il pavimento e concimava lo spazio circostante. Il letame nella maggior parte delle malghe veniva trasportato dalle stalle in un luogo poco lontano e conservato in cumuli fino alla stagione autunnale. Verso il mese d’ottobre, alcuni uomini o donne nominati dall’Amministrazione salivano in montagna e con carri trainati da cavalli o con slitte a mano spargevano il letame sui pascoli.[100] Tuttavia, già alla fine dell’800, nelle malghe di Rin Bianco (Auronzo) [101] e Confin (Lozzo) si praticava la concimazione mediante una fossa di raccolta del letame e canali, dove introdurre l’acqua, per il trasposto in più direzioni. Questo sistema considerato più efficace venne col tempo adottato anche da altre malghe.
Nei regolamenti delle malghe venivano date indicazioni riguardanti anche la distribuzione dei prodotti che di norma, come si è già detto, veniva fatta alla fine della stagione lavorativa. Era compito dell’amministrazione di monte calcolare la quantità di prodotto spettante a ciascun proprietario ed era l’amministratore, coadiuvato dal segretario a distribuirlo materialmente. Ogni allevatore riceveva la quantità esatta di prodotto che gli spettava, si fosse trattato anche di solo mezzo etto di formaggio. Una parte della produzione casearia era destinata inoltre alla chiesa, per il mantenimento del parroco. Nel comune di Lozzo, per antica tradizione, alla chiesa veniva offerto quanto si produceva in malga il giorno di San Lorenzo patrono del paese, il 10 agosto; in cambio la chiesa offriva il disnà, il pranzo ai lavoratori della malga. I prodotti caseari spettanti a ciascun proprietario in molte malghe, come Doana, Baion, Pian de i Buoi, venivano distribuiti, dòu\date fòra, distribuì fòra, alcuni giorni prima della discesa a valle degli armenti. Il trasporto era solitamente affidato alle donne le quali lo effettuavano con la gerla intrecciata, l déi\theston, o con il darlin, una sorta di gerla formata da uno schienale, munito di spallacci, e un ripiano su cui veniva legato un sacco contenente le forme di formaggio. Questo veniva portato a valle anche con le slitte a stroth, ovvero trascinando le slitte sul terreno. Nel territorio del comune di Lozzo il toponimo Pian del Formai ricorda l’abitudine, dettata da esigenze di trasporto, [102] di portare il formaggio in spalla fino al detto piano, per proseguire poi con la slitta lungo il sentiero che conduceva in paese.
In alcuni comuni, come Auronzo, Calalzo, Lorenzago, Laggio e Pozzale a partire dagli anni 1930-’40 la quasi totalità della produzione casearia della malga veniva condotta, ciareòu\à su e portà dó, con un carro, e più tardi con le jeep, nelle latterie (e talvolta case o fienili privati) in paese e distribuita a ciascun proprietario [103]. La possibilità di utilizzare mezzi di trasporto dipendeva dall’ubicazione delle malghe e dalla disponibilità di una strada carrozzabile; in questo senso furono importanti la costruzione di alcune strade militari, che tornarono utili anche per usi civili. Il regolamento prevedeva che il formaggio non venisse distribuito prima della data prevista, tuttavia tutti gli informatori sono concordi nel riconoscere, e alcuni documenti lo confermano, la disponibilità delle Amministrazioni a concedere il prelievo di una parte del prodotto alle famiglie bisognose. Ciò non accadeva, purtroppo, molto di raro.
Merita infine di menzionare la norma per cui se un proprietario, durante il periodo d’alpeggio subiva la perdita di uno o più capi di bestiame, al momento della distribuzione dei prodotti egli avrebbe percepito la medesima quantità di latticini senza alcuna riduzione. Incidenti agli animali, sebbene non frequenti, potevano accadere soprattutto durante gli spostamenti verso i pascoli, o anche per malattia. Nel primo caso, l’animale poteva essere venduto per mangiare la carne [104]; in caso di malattia, l’animale morto veniva seppellito nelle adiacenze della casera. Il toponimo Val de le Sepolture [105] sembra confermare quanto detto.
All’alpeggio, con le mucche, si portavano anche i maiali, i quali venivano lasciati pascolare e nutriti col lo sgólo/scólo, siero rimasto dalla lavorazione del formaggio. Riportati in paese a fine stagione, ben ingrassati, erano pronti per essere venduti.[106]
Il giorno destinato alla discesa degli alpeggi era per tutte le malghe, eccetto Razzo, il 7 di settembre, par la Madona de setenbre. Ogni paese presentava consuetudini differenti e se nella maggior parte dei casi erano i proprietari a provvedere al trasporto a piedi, avvantaggiati dal fatto di accompagnare animali allenati, nella malga di Misurina erano i pastori a portare in paese la mandria e ogni proprietario provvedeva a condurla nella propria stalla.
Anche le manze e le vitelle venivano condotte in montagna per l’alpeggio. Ad esse erano destinati pascoli e casere differenti da quelli riservati alle mucche da latte. Per le stesse vitelle e manze c’erano luoghi e stalle diverse. Dalle interviste raccolte s’intuisce che a questi animali, considerata la loro momentanea improduttività, veniva data una minore importanza. Della dislocazione delle casere e delle zone di pascolo rimangono oggi poche tracce nella memoria degli informatori. Va inoltre ricordato che, quando l’attività di allevamento bovino iniziò a diminuire, queste casere furono tra le prime ad essere abbandonate e gli animali giovani furono portati a pascolare con le mucche da latte. A questi animali più resistenti e forti e che richiedevano meno attenzione, venivano destinate zone talvolta impervie e poco agevoli. Nelle montagne provviste di stalla, le manze erano spesso lasciate libere e le porte della stalla aperte così che esse potevano entrare ed uscire a loro piacimento.
Sulla monte di Doana vi é la malga Zoppè costruita, come rifugio per gli animali, solo nel 1933, mentre l’uso del pascolo è molto precedente. Le manze del Comune di Pieve venivano in parte portate a pascolare in località Valle, ai piedi della monte di Vedorcia. Questa casera fu utilizzata per l’ultima volta nel 1945 [107]. Gli abitanti di Calalzo conducevano le proprie manze e vitelle in Val D’Oten, mentre sull’ampia monte di Razzo, le manze nella casera di Sotto Piova e le vitelle in quella di Federata pascolavano in prati non molto lontani da quelli delle vacche da latte.
Nel Comune di Lozzo, la malga di Confin era un tempo destinata alle sole manze e in un secondo momento venne dotata di una caldaia per la lavorazione del latte, così da poter ospitare alternativamente, ed in base alle esigenze di pascolo, mucche e manze. Anche nel pascolo di Valdazene venivano portate le manze le quali potevano godere di una tettoia come ricovero. Poco distante dalla casera c’era un tempo una piccola stalla di legno per il toro. Altri pascoli per manze utilizzati quando l’altopiano di Pian dei Buoi era troppo ‘carico’, erano Cianpeviei, dotato di un ricovero per gli animali costituito da una tettoia, e Valsàlega con il solo cason per i pastori. La gestione dei pascoli per le manze e le vitelle seguiva quella delle mucche, e la stessa Commissione che nominava i pastori e i casari per le malghe, sceglieva gli uomini per il pascolo dei giovani animali. I malgari impiegati per questo lavoro erano in media due, per un numero di circa cento capi di bestiame ; si trattava spesso di un pastore esperto e di un giovane apprendista. La salita e la discesa dalla montagna di questi animali seguiva generalmente le date dell’alpeggio delle vacche da latte; tuttavia, sempre in vista di un’economia delle risorse foraggere, si cercava di prolungare il più possibile la loro permanenza lontano dalla stalla. Molte famiglie, com’è già stato detto, lasciavano pascolare le bestie sui loro possedimenti privati ormai falciati: si cercava di comunque di sfruttare ogni più piccola risorsa prativa. Ad Auronzo vi era l’usanza di portare alcune manze a pascolare per quindici giorni, nel mese di settembre, in località L’Albergo di Baion, [108] lungo l’omonima valle, dove vi erano dei ricoveri naturali per gli animali. Le manze erano lasciate incustodite durante la settimana e soltanto la domenica i proprietari salivano per un controllo e per portare loro del sale.
Note al testo:
[59] Questi due termini sono usati rispettivamente a Domegge e Lozzo ed indicano la pratica di far camminare le mucche per far loro riacquistare tonicità ai muscoli delle gambe, dopo il lungo inverno trascorso in stalla. [torna su]
[60] Vedi nota n. 30 [torna su]
[61] A.V., anni 59, artigiano, Laggio di Cadore, inverno 1999.
– Ma noi non facevamo mai la strada statale, diciamo la normale, facevamo sempre , anche per …, a venire per la strada qua che si va normalmente, poi si salivano i tornanti verso Roda de Doana , si chiama, una strada ripida , dove adesso scende l’acquedotto, e si saliva verso Doana, poi si si saliva nella zona della Pissa, e si e si arriva sopra la galleria, là no, e si arriva …E se no si andava su par la Roda de Val de Scosa, de Val de Scosa, che da Roda de Doana, invece che salire a Doana, quando si arrivava al piano lassù e si ritornava per la strada o si ritornava per la Val de Scosa, fino a Cianpigoto, diciamo, allora si faceva… E dopo da Cima Cianpigoto si scendeva per Sottopiova , si andava per le Maccarine e si arrivava a Campo, no. Quella era la strada di quando si portavano le bestie. Perciò era lunga e anche le mucche no, perché arrivavano che erano stremate. [torna su]
[62] Pietro Vecellio Segate, Ricordi di Auronzo del 1900, Pieve di Cadore, Tipografia Tiziano, 1990. Pagg. 107-120. [torna su]
[63] Andrea Angelini e Ester Cason (a cura di), Oronomi bellunesi. Centro Cadore: Pieve, Domegge, Lozzo, Quaderni scientifici della Fondazione n. 4, Padova, Fondazione Giovanni Angelini Editore, 1993, pag 87. [torna su]
[64] G.C., anni 74, ex casaro, Grea di Cadore, autunno 1998.
D. Ritornando a quando era nelle malghe. Le mucche quando venivano smonticate, diciamo, andavano subito in stalla o andavano un po’ al pascolo? Quando ritornavano dalle malghe?
– Si. Allora, c’era qualcuno che aveva la possibilità di lasciarle fuori fino a quando non arrivava la brina. Perché dopo, quando veniva la brina non era molto indicato lasciarle fuori. Perché innanzi tutto scivolano, rischiavano di…Perché erano tutte, quando scendevano da monte, erano in asciutta, perché erano piene e dovevano partorire il vitello, no.
Allora bisognava cercare di tenerle anche…perché se scivolavano che andavano a ruzzoloni rischiavano di perdere il vitello. Perché il vitello voleva dire perdere un mucchio di soldi, perché il vitello si vendeva, era sempre una risorsa, insomma, ecco. Noi per esempio, quando venivano giù, che noi avevamo qua sempre sette, otto mucche,
qua dove ho rimodernato adesso. Le lasciavamo pascolare ancora un po’ dentro per Bieggia. Dopo abbiamo una stalla qua sotto, sotto quegli alberi là. Considera da là per cento metri sotto la valle. Bella stalla là, che poi l ho data a lui, che tiene le capre là dentro. Le portavamo là e le lasciavamo libere un pò dopo pranzo, sai a mangiare quel po’ di…dopo aver segato il secondo fieno, dopo aver segato il secondo: quel po’ di erbetta che veniva su ancora. Un’ora due dopo pranzo quando c’era bel sole. E le tenevamo là a mangiare il fieno fino ai Santi, dopo i Santi, dopo i Morti, là così. Quelle settimane là insomma. Se il tempo era bello anche fino a metà dicembre, di novembre, e dopo le tornavamo a portare qua. Così mangiavano il fieno là, se no bisognava portarlo qua sulla testa, vero, sì, con il fascio. Si mangiavano il fieno là e rimaneva anche il letame.
D. Chi ne aveva la possibilità mandava al pascolo queste besti?
– Èh sì. [torna su]
[65] La popolazione di Lozzo indica il luogo come Monte. Fonte orale. [torna su]
[66] A. V., anni 59, artigiano, Laggio di Cadore, inverno 1999.
D. Lei ricorda che, quand’era bambino, qui a Laggio c’erano le mucche ?
– Sì, sì ricordo tutte le bestie che c’erano qua, sono andato tante volte a portare le mucche in malga, anche. Sì, perché allora si andava a piedi, anzi non si faceva un viaggio continuo, no, alla sera…Prima perché le si abituava un po’ quaggiù a mangiare l’erba, no, perché altrimenti un cambiamento brusco le mucche …non andava bene. Allora la sera prima dell’alpeggio andavamo dentro, le portavamo circa a metà della valle qua, che ci imprestavano un fienile e le mettevamo nel fienile. Dopo alla mattina andavamo dentro, perché le mucche faticavano a camminare, e dopo le portavamo su. E siccome quando andavano, monticavano, andavano direttamente a Campo, perché a Razzo non c’era erba, no, quel periodo l’erba… E a Campo che è a mille e sei l’erba era già alta. Allora si andava su e si andava a Campo, la strada era ancora più lunga, no. Perché da Laggio a Campo era lunga, insomma. Chi ne aveva la possibilità le caricavano su qualche camion, su qualche ruota, perché allora le strade non erano asfaltate, non c’era niente, non c’erano mezzi…Insomma c’era qualche camion che aveva portato su la roba per i pastori, no, allora quando ritornava indietro portava su anche noi che eravamo andati a portare le mucche. Le mucche, le manze…Perché noi abbiamo quattro malghe funzionanti, proprio con la stalla e tutto quanto, no. E dopo ne avevamo una solo con la malga, diciamo, no. Avevamo la malga di Sottopiova, che era la prima no, che era in cima al Cianpigoto, qua non appena vi si arrivava, si fanno tutti i tornanti, come si arriva su nel piano, come ci s’avvia nel piano per andare al rifugio. Sulla sinistra si scende cinquecento metri là si giunge alla prima malga, che là c’erano le manze. Ci sarebbero le manze, che sarebbero prima delle mucche, no. Poi si andava ancora un po’ avanti verso il rifugio e là c’erano le vitelle, che chiamavano, chiamavano la Federata, che anzi il nome non è neppure….Noi diciamo Federata, ma il suo nome vero e proprio mi sfugge adesso…non me lo ricordo più che nome ha, perché è un nome che noi non abbiamo mai tanto usato qua, ma sulle carte è segnata come malga…èh non mi ricordo più. E dopo abbiamo la malga di Razzo, che è ancora più avanti, no.
D. Mi ha detto che alla partenza vi fermavate in un fienile…
– Sì a metà strada circa, dentro per Selva…
D Ma tutti?
– No, non tutti, perché non c’era posto per tutti. Chi aveva le mucche un po’ più deboli, chi aveva le mucche che faticavano a camminare. Chi non le aveva portate per i prati prima, allora dovevano fare metà viaggio alla volta, no, diciamo, perché non si stancassero troppo. Perché altrimenti diminuivano il latte, perché…
D. La stalla era del Comune?
– No no, fienili privati, così. I fienili che trovi lungo la valle. [torna su]
[67] Francesco Schupfer, Il Cadore i suoi monti e i suoi boschi, op. cit. pagg. 68-69. Si veda anche Walter Musizza, Giovanni De Donà, Baion una casera, un rifugio, Udine, Litografia Designgraf, 1992 [torna su]
[68] Giandomenico. Zanderigo Rosolo, Appunti per la storia delle Regole, op. cit., pag. 24. [torna su]
[69] I pascoli di Losco e Pian de Sire, fino alla metà degli anni ’40, erano monticati alternativamente da Vila Granda (chiamata anche Gortina) e Vila Pithola, le due borgate che costuiscono il paese di Lorenzago. Fonte orale. [torna su]
[70] Relazioni annuali del Comizio Agrario di Auronzo. B. S. V. [torna su]
[71] Relazione del Comizio Agrario di Auronzo sulla visita fatta ai pascoli estivi del distretto. A. C.A. [torna su]
[72] Relazione annuale del Comizio Agrario di Auronzo, Anno 1895. B. S. V. [torna su]
[73] Con questi termini, nei documenti d’archivio, vengono indicati gli allevatori . [torna su]
[74] Termine usato nei documenti d’archivio in sostituzione di monticare [torna su]
[75] Renza Fiori, a cura di, Aiarnola, Belluno, Tipografia Piave, 1998. [torna su]
[76] La scòla de i morte è descritta come un gruppo di anime che vaga per le strade dei paesi, borbottando e lamentandosi. L’ora preferita da queste anime è appunto la mezzanotte. Ci sono diverse storie fantastiche che accompagnano i racconti relativi ai viaggi e agli spostamenti degli uomini e delle donne, durante le ore notturne, per raggiungere i luoghi di lavoro o i pascoli. [torna su]
[77] La vecchia strada, sebbene molto ripida presentava il vantaggio di essere più breve, perciò non pochi la preferivano alla strada militare che, sebbene molto più piana grazie ai molteplici tornanti, allungava il viaggio di ore. [torna su]
[78] S. V., anni 72, di Domegge, racconta che il mantello delle mucche veniva spalmato col sego, grasso di maiale, per proteggerla dalla pioggia. [torna su]
[79] Il campanaccio con il collare è detto sanpògna a Domegge, Vallesella e Grea, Lorenzago, Pozzale, tantèl ad Auronzo, Lozzo Vigo, Laggio e Pelos. [torna su]
[80] Per fabbricare i collari dei campanacci (coste, quelli dei bovini e canòule\canàule, quelli delle capre) si utilizzava legno di larice possibilmente già dotato di una curvatura naturale. La fascia in legno era immersa nell’acqua bollente e piegata manualmente fino ad ottenere un ovale. La fascia, infine, veniva tagliata e lavorata in modo da poter essere aperta e rinchiusa al collo dell’animale. Alla fine della stagione i campanacci venivano riposti in soffitta, infilati in un lungo bastone e appesi sotto il tetto. [torna su]
[81] La mussa è il termine dialettale che indica il palo rotatorio sul quale è appesa la caldaia per la fabbricazione del formaggio. [torna su]
[82] Francesco Shupfer, op. cit., pagg. 74-82. [torna su]
[83] Informazione data da G. D. V., anni 85, ex casaro, Domegge di Cadore, inverno 1998. [torna su]
[84] Informazione data da A. D. R., anni 72, Lorenzago di Cadore, autunno 1998. [torna su]
[85] Nella relazione annuale del Comizio Agrario di Auronzo, del 1895, si legge al capitolo Osservazioni generali ‘Il formaggio appena levato dalla caldaia e per tutto il tempo fino alla smonticazione viene ammassato sopra un grosso tavolato che corre all’ingiro della cella, alquanto elevato dal suolo. Su questo tavolato chiamato le piane, le forme di cacio stanno ammassate le une sopra le altre specialmente dove la cella è piccola e il formaggio è in forte quantità‘ Seguono indicazioni su come è opportuno allestire la cantina per conservare in modo corretto le forme di formaggio e ricotta. B.S.V. [torna su]
[86] S. V., anni 72, di Domegge, racconta che i pastori della Casera Doana raccoglievano l’erba per farsi i gicigli in una palude vicina alla casera. [torna su]
[87] ‘Relazione della Commissione del Consiglio Agrario di Auronzo sulla visita fatta ai pascoli estivi del distretto.’ Auronzo, lì 20 novembre 1867. A. C. A. [torna su]
[88] Il Comizio Agrario di Auronzo fu istituito nel 1876 con lo scopo di migliorare l’attività di allevamento e la produzione dei latticini nelle malghe e latterie del Distretto. Annualmente il Comizio predisponeva sopralluoghi nelle malghe e nelle latterie al fine di verificare le condizioni in cui erano tenuti gli edifici, i metodi di produzione e la qualità dei latticini. Seguiva la stesura di relazioni con osservazioni, consigli e premi ai caseifici e ai casari più meritevoli. B.S.V. [torna su]
[89] Nel volume di Renza Fiori, op. cit., la parola bolco si riferisce alla funzione di pastore senza distinzione di posizione o ruolo. [torna su]
[90] Il termine secondo pastro viene riferito da Luigi Calligaro De Carlo ex casaro. A Cortina d’Ampezzo il pastro è il primo pastore nelle pecore e capre, Vocabolario Ampezzano, a cura di Comitato Studi Bolzano, Athesia, 1997 [torna su]
[91] Così viene chiamata nei registri di monte la razione di latte e formaggio che spettava ai pastori e al casaro [torna su]
[92] Ogni pastore alla fine della stagione riportava il proprio sgabello a casa. [torna su]
[93] A.D.R., anni 72, ex operaio ottico e contadino, Lorenzago di Cadore, autunno 1998
“Ciò, ciò, ciò” per esempio quello che sta davanti, il primo pastore, grida “ciò, ciò, ciò”, sempre col sale pronto, vero, per darlo a una, all’altra, a quest’altra, a quella che gli capita vicino. Davano il sale. Partivano e andavano in una zona, per esempio, in una zona come questa; prendevano e uno si metteva laggiù, uno si metteva lassù, l’altro di là, in quattro, e quando arrivavano le vacche le facevano girare, in modo che stessero in quel pezzo di terreno, ecco. E l’indomani cambiavano nuovamente zona. Ogni giorno una parte di pascolo, cosicché potessero mangiare, ecco, queste bestie. E poi, mano a mano che l’erba ricresceva per la seconda volta, riprendevano la rotazione fino al sette di settembre, quando tornavano a casa.’ [torna su]
[94] A.D.R., anni 72, ex operaio ottico e contadino, Lorenzago di cadore, autunno 1998
D. A Pian de Sire faceva il pastore?
– No no, ero aiutante di Checco.
D. Le vacche a che ora vengono portate negli stalloni ?
– Le vacche vengono portate verso le tre e mezza-quattro.
D. E poi non escono più?
– No, quella sera no. Eh, ma stanno fuori dalle otto alle quattro di sera, mangiano…
D. Non si usava, qui, mandarle a pascolare un po’ anche alla sera, così?
– No no. Il primo periodo, per esempio a Pian de Sire, allora sì perché stavano ventidue giorni solo lì; lì attorno, per ventidue giorni. Allora le lasciavano libere dal mattino alle otto fino alle dieci, perché … all’inizio non possono mangiare come vogliono, anche le bestie, ce n’è di ingorde, ecco, di quelle che mangiano eccessivamente, e poi stanno male e insomma… è un compito anche quello, di… di saperle anche amministrare, queste bestie, perché… E poi ci vuole tanta passione, ci vuole passione.
D. Là a Pian de Sire le mandavano fuori dalla stalla alle dieci, e poi?
– Poi le rinchiudevano, le legavano di nuovo, e poi la sera le mungevano, dalle quattro alle sei le mungevano, perché d’estate, d’estate c’è luce fino a tardi, alle sei le liberavano e facevano rientrare alle otto, prima che diventi buio, altre due ore.
D. C’è un modo per dire quando le si manda fuori a quell’ora? È mandarle a thena?
– Sì, sì, a thena, in thena. In prendèra è al mattino, dicono prendèra. Perché allora le prendono qui, come per esempio qui le portano fin quasi a Laggio, a pascolare. E lì vanno dritte finché arrivano al ponte, per esempio, fin quaggiù al ponte. Lì le fermano e dicono ‘Dovete stare da qui ‘. E l’indomani le mandano fino ad un bel pezzo in alto verso Laggio, e via di seguito, gli danno un pezzo al giorno, no. Eh sì.
D. Allora al mattino in prendèra…
– E alla sera a thena.
D. Anche a Doana e Baion si usava fare così?
– No, no. A Baion e Doana no, perché non c’è… il cianpè, lo chiamano, il cianpè dove stanno le bestie alla fine, quando ritornano, insomma, quando rientrano dalla zona di pascolo della mattina stanno nel cianpè, un’ora, due, tre. I pastori si sdraiano ognuno in un angolo, e stanno là perché li chiamano ‘quelli che lisciano il bastone’, i pastori, ‘quelli che lisciano il bastone’. Allora loro stanno là finché non è ora di… Poi fanno un fischio, quello in cima fa un fischio e allora le uniscono tutte e le mandano nella stalla pian piano, no. [torna su]
[95] Renza Fiori, Aiarnola, op. cit., pag. 21. [torna su]
[96] Si veda ad esempio il Regolamento per la conduzione delle Malghe del Comune di Domegge art. 8. A. C. D. [torna su]
[97] Negli anni ’40 la malga di Misurina era dotata di corrente elettrica e la zangola era a motore. [torna su]
[98] Da quanto riferito dagli informatori la maggior parte delle malghe del Cadore ebbero la disponibilità di una scrematrice solo dopo gli anni ’50. [torna su]
[99] In alcune montagne l’acqua di un torrente prossimo alla stalla veniva fermata con un sbarramento e liberata nell’edificio per ripulirlo dagli escrementi. [torna su]
[100] M. S., anni 76, di Domegge, racconta che la propria famiglia nel mese di ottobre saliva a Doana con i cavalli per effettuare la concimazione del pascolo; in cambio di questo servizio essi avevano diritto di effettuare un taglio d’erba sulla monte per il mantenimento del cavallo. [torna su]
[101] Nella Relazione annuale il Comizio Agrario di Auronzo indica la malga di Rin Bianco la migliore sotto l’aspetto dello smaltimento letame. B. S. V. [torna su]
[102] La Casera delle Armente si trova a quota 1757 m., Pian de Formai a 1850 m. ca. questo dislivello tra i due piani avrebbe reso molto difficile il trasporto con la slitta del formaggio dalla Casera, al Piano per dove prosegue la strada vecchia di monte, molto più comodo fare il trasporto in spalla e poi continuare con le slitte. [torna su]
[103] Le modalità di trasporto dei prodotti caseari a valle, come altre pratiche di alpeggio, non erano soggette a rigide usanze immutabili nel tempo. Alcune abitudini potevano modificarsi nel corso degli anni in base alle circostanze alle esigenze di chi lavorava nelle malghe o dei proprietari del bestiame . [torna su]
[104] La notizia viene riportata da Renza Fiori ,op. cit. Il pastore che scrive il diario riporta l’ordine, da parte di un proprietario, di vendere la propria mucca, la quale durante la notte si era rotta una gamba. [torna su]
[105] Andrea Angelini e Ester Cason, a cura di, Oronomi Bellunesi. Centro Cadore: Pieve, Domegge, Lozzo, Quaderni scientifici della Fondazione n. 4, Padova, Fondazione Angelini Editore, pag. 38. [torna su]
[106] Con l’arrivo dei primi freddi verso la fine di novembre, primi giorni di dicembre, ogni famiglia uccideva il maiale per produrre salami da consumare durante i mesi invernali. La pasta del salame era solitamente mista manzo o cavallo e alla fabbricazione provvedevano esperti chiamati dalle famiglie appositamente. Il salame, prima di essere riposto in cantina, veniva tenuto appeso al soffitto della cucina dove si affumicava e seccava, era il cosiddetto sóra fógo di cui le famiglie potevano vantarsi. [torna su]
[107] Andrea Angelini e Ester Cason, a cura di, op. cit., pag. 127. [torna su]
[108] Pietro Vecellio Segate, op. cit. pagg.. 107-128. [torna su]