La cura dei prati
I lavori della fienagione iniziavano verso la fine di aprile, quando scomparsa anche l’ultima neve, i prati dovevano essere ripuliti, di a curà le vare\i prà, da sassi e rami che impedivano alla falce di procedere senza intoppi. Con l’arrivo della primavera nei prati venivano raccolte le rame, accatastate e bruciate, mentre i pezzi più grandi erano portati a casa e usati come legna da ardere, questo come la preparazione e la cura dei campi per la semina era compito soprattutto delle donne. A fondovalle i paesi erano circondati dalle vare, prati coltivati, coltade, dove talvolta si riuscivano ad effettuare fino a tre tagli in una stagione. La produzione e la qualità d’erba che un prato riesce a dare sono strettamente legati alla quantità di materia nutritiva che ad esso viene riservato. La pratica di coltivare i fondi, in base a quanto riferiscono gli informatori, si può considerare abbastanza diffusa, ma non va dimenticato che una grande quantità di grassa\ledame era destinato ai campi. Verso la fine dell’800 il medico veterinario Antonio Barpi [139], lamentava una scarsa attenzione alla concimazione dei fondi a vantaggio dei campi, con il risultato di avere foraggi di qualità scadente.
La concimazione iniziava in autunno prima dell’arrivo della neve e veniva effettuata manualmente, il letame veniva portato, menà fòra, sui prati più distanti con la lioda\luoida sulla quale veniva fissata una sorta di cassone a sponde basse [140]. Nella maggior parte dei casi erano gli uomini a trascinare la slitta coadiuvati dalle donne che la spingevano da dietro facendo forza sul manico de na forcia da grassa\ledame conficcata nel letame, oppure tirando la slitta con una lunga corda legata a lato. Talvolta, per distanze maggiori e per chi ne aveva la disponibilità, venivano, impiegati asini o cavalli. Nei fondi più vicini erano le donne a provvedere al trasporto con la dèrla\ theston. Il concime era sparpagliato grossolanamente, bicià\spande fòra, per il prato con la forca e lasciato sotto la neve durante l’inverno. A primavera, prima che l’erba ricrescesse, si provvedeva a gratolà\fèi fòra, desfèi il letame rimasto affinché fosse assorbito completamente dal tarén.
Tanto i lavori di pulizia che di concimazione dei prati, svolti durante il periodo primaverile, avevano dei limiti temporali, stabiliti per consuetudine, oltre i quali non era più possibile effettuarli; nel momento in cui l’erba iniziava a crescere era assolutamente proibito camminare nei prati, contravvenire a questa norma significava dare il via ad infinite liti tra confinanti. La creazione di prati artificiali in Cadore non era una molto diffusa, sebbene molte famiglie destinassero piccolissimi appezzamenti di terra alla coltivazione d’erba spagna e altissima. Talvolta accadeva che un campo a lungo sfruttato venisse ‘lasciato riposare’ seminando queste due qualità d’erba così importanti per l’alimentazione dei bovini; complessivamente si tratta di una pratica spesso lasciata agli allevatori più attenti o con più animali.
La fienagione
I lavori della fienagione, seà, fèi fién, si dividevano in due momenti corrispondenti al taglio delle vare e dei prade\prà. Il taglio a fondovalle iniziava verso i primi giorni di maggio quando l’erba era ormai alta. Il taglio delle vare, poste non molto distanti dal paese permette un trasferimento quotidiano dei contadini dall’abitazione al fondo da tagliare ed il ritorno a casa per il pranzo. Il lavoro iniziava la mattina presto per evitate le ore centrali della giornata. Al taglio dell’erba si dedicavano uomini e donne e, come riferiscono in molti, non c’era una rigorosa divisione dei compiti, anche se l’uso della falce era soprattutto maschile; mentre alle donne toccava soprattutto rastrellare. Gli strumenti della fienagione erano uguali tanto nelle vare che nei prati d’alta montagna. Alla mattina, prima di iniziare il lavoro, la lama doveva essere batuda. Bate la fòuth\fàuthe era compito soprattutto maschile, gli strumenti necessari erano al batadòire\ batadòre composto da un incudine e dal martèl\mai, martello. In Cadore erano usati due tipi d’incudine: una da fissare nel legno e l’altra detta da tarén. La prima, costituita da un ceppo piuttosto corto con testa a spigolo, era usata infissa in un ciocco o nella trave del fienile; la seconda, con ceppo allungato e testa a spigolo, era conficcata nel terreno ed era munita nella parte centrale di due o più bande di ferro, avvolte a spirale, per impedire all’attrezzo di sprofondare nel terreno. In entrambi i tipi, il martello, usato per ribattere la lama, era a manico corto e massello piatto. Al momento di conficcare l’incudine, veniva usato un mazzuolo di legno affinché lo spigolo non si rovinasse. Il sistema più diffuso per l’affilatura consisteva nel separare la lama dal faucià\fucià, il manico della falce. La lama appoggiata allo spigolo dell’incudine veniva ribattuta leggermente fino ad ottenere la giusta filatura. Il taglio dell’erba era eseguito con una falce munita di lama arcuata larga a destra e a punta verso sinistra. Solitamente la lama era applicata al manico tramite un codolo, fissato ad esso con una ghiera. Il tipo d’immanicatura diffusa in Cadore presentava due impugnature, mantie, una posta verso l’alto e una a metà dell’altezza, inserite direttamente nel manico e piegate verso sinistra. Oggi in molte case si possono vedere delle falci con manici leggermente differenti, dove il presacchio centrale è sorretto da un bastone posto trasversalmente al manico. Si tratta di un tipo proveniente dalla campagna trevigiana e portato in Cadore dai segantini [141]. Al momento di recarsi sul prato e procedere con il taglio, veniva legato alla cintura dei pantaloni il porta cote e la cote, l codèi e la code\cuode. Un tipo antico di porta cote era in legno più o meno intagliato e munito di gancio; altro tipo diffuso in passato era ricavato da un corno di bue. Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale si diffuse un porta cote costituito da un fodero in latta di forma affusolata. Se i primi due tipi venivano fabbricati in loco o direttamente dai contadini, il secondo veniva acquistato ai mercati o da venditori ambulanti.
Per il taglio delle vare, come per quello dei prade\prà l’inizio dei lavori era di mattina presto, in modo che l’erba tagliata potesse asciugarsi al sole nelle ore centrali della giornata. L’erba tagliata era quindi porta al sole, rodolà, e sparpagliata, spande fòra, sui fondi con le mani o più raramente con i restiéi, rastrello. Il rastrello utilizzato era completamente in legno con un lungo manico, a sezione circolare, inserito in un’apertura del regolo, la petenela,. Dopo alcune ore l’erba veniva rivoltata, voltada\oltada, e lasciata al sole fino a completa essiccazione. Un informatore riferisce che il metodo migliore per ottenere una buona essiccazione ed in poco tempo, era di non spargere il fieno subito ma lasciarlo essiccare per un po’ nelle lunghe andane, andèi, che si formano con il taglio. Non accadeva certo di raro che piovesse e così il fieno bagnato, che s à ciapà sóte, veniva raccolto in più cogoluthe\th e lasciato nei prati durante la notte. Alla mattina veniva nuovamente distribuito sul prato spande fièn\fén. Dopo aver raccolto la maggior parte del fieno, il prato veniva nuovamente rastrellato per non andasse perduta la più piccola quantità di foraggio, tale operazione è stata definita da un informatore con l’espressione tirà trèina.
I tabià e il trasporto del fieno a fondo valle.
Il trasporto del fieno a fondo valle avveniva di solito senza l’ausilio di animali, talvolta utilizzando un piccolo carro, ciar\ciaredèl, munito di due sole ruote e trainato a mano. Il carico era legato con la fune, l funath\o\fugnatho, o raccolto nel lenthuó\lenthió\cuerta da fién\fén, telo da fieno. L’erba per venire legata con la fune, doveva essere quella del primo taglio, ovvero risultare abbastanza lunga da essere raccolta in fasci. L’erba del secondo taglio e quella di montagna quasi mai veniva trasportata in questo modo. La fune [142], lunga 6-7 metri, era realizzata con fili di canapa o strisce di cuoio intrecciato e munita del ciònco ad una estremità, una taccola di legno di forma bislunga, con due punte a spigoli arrotondati, munita di un foro e di un incavo laterale; l’estremità opposta terminava con un sola striscia di pelle, da alcuni informatori indicata col nome di coda. La lunga corda veniva distesa sul prato in modo che il ciònco rimanesse a monte; il fieno raccolto in viestre era disposto sulla fune che si legava a formare un fas o torsa de fién\fén. La viestra era una sorta di unità di misura calcolata per formare un fascio o un telo di fieno da trasportare; alcuni informatori riferiscono che per fare un fascio servivano di media sei viestre. La fune era legata introducendo la coda nell’incavo laterale del legno, quindi si iniziava a stringerla al fascio; per esercitare una maggiore forza, la fune era fatta passare intorno alla vita mentre con un piede si teneva fermo il carico. Quando la fune l era tirada a cu, stretta intorno al fascio tanto da far cadere a terra con il sedere il contadino, il fascio era pronto. Effettuare una buona e salda legatura era assai importante affinché durante il trasporto parte del carico non fosse perduto.
A. In agosto i dhèa su la dhènte, sì. Dopo dhóne su a tòle, faseóne le médhe, co la testa porteóne a stradha, pò là aveóne i carete che ciareóne su i fas e ieneóne a ciasa.
B. Porteóne a Vigo.
D. Tirando iòutre l ciar?
A. Sì.
D. No na bestia?
B. Che ciavai!
A. No cara, noi lassù tireóne l careto.
B. Niente tirare, cuatro e avanti.
A. Che cuan che son maridhadha, èi fato diciasete noli, alora ciameóne, col careto. A levà a n bòt e mèdho, a le dhói e a le tré de nóte a dhi su, éro. E cuan che era medhodhì ereóne a ciasa col fién, parchè che lassù i cosi, i tabias no i era a portata de man, bisognèa caminà ancora n tòco e pò dhi a fèisse le torse a portale a careto.
D. E cuanto pòrtelo un ciar?
A. Alora ciareóne su dodese torse, ciameóne torse.
D. Dodese?
A. Dodese torse.
D. Bèl pesante, alora?
A. Èh le pesàa da …
B. Thincuanta chile.
A. Thincuanta chile, le pesàa le torse. E tòle su la testa thincuanta chile, la vedhe…
D. Ma con …iòutre ciamé cuèrta?
A. No, no, col rìghin, col funatho.
B. I funathe, sì, sì, i funathe.
A. Chi che se fasèa…Alora i conpra le pèl, e co le pèl se fasèa i funath, leèa su come le trecce, le drethe de le femene disón…
B. Forte, chi là.
A. E i fasèa i funath così.
D. Farèili ca a Pelos?
A. No.
D. In Aurònth…
A. I ciamèa i funathèi, in Aurònth. I portàa le pèl, cheste vace che magare crepàa o chi i dhèa a conprale dal macelaio, no lo sèi, i portàa e i fasèa i funathe…
B. Anche l pare à portòu là inte, à fato diverse funathe.
A. Sì, e chi i dhèa bén, parchè ne che i se ronpèa e ne gnente. E alora…
D. Nveze…. noi ciamon lenthuói, iòutre ciaméo cuèrta?
A. Le cuerte, sì.
D. Ah, noi disón lenthuó, eco; e a cuerta se pòrtelo cuan, nvethe alora?
A. É conpai.
B. La stessa roba.
A. Conpai, conpai, ma fòra così come se fasèa? Prima roba no era tante cuerte, a fèi anche dodese cuerte, e pò stasèa pì su. Su i … Parchè bisogna fèi dhute le viéstre par fèi le torse. Se fasèa le viéstre e se portàa sié viéstre par fèi na torsa; e dopo se leàa, se montàa e se tiràa a cu. Ero senpre ió chela che leào parchè disèa che avèo pì fortha, parchè se no le era leade dure le se desléa.
D. Ma se leèa da par tera?
B. Par tera, par tera.
A. Se betèa l funatho così, no: lòngo. Pò nthima era un ciònco: se lo piantàa tel taren par tenì fermo, e dopo se betèa dhó dhute le coso una sóra che l àutra, le viéstre, sié, no pì de sié parchè no se farèa…[143]
Il fién\fén da vare era conservato nei fienili posti in paese o nelle soffitte delle case. Nel centro Cadore ancora più che nell’Oltre Piave, i fondi posti nelle vicinanze dei paesi, tenuti tanto a seminativi che a prati, erano provvisti di tanti piccoli tabià dove veniva raccolto parte del fieno. Si tratta di modeste costruzioni in tavole, senza finestre e isolate dal terreno mediante pietre o tronchi d’albero. In qualche tabià erano presenti delle piccole aperture per favorire l’areazione. Più rari e antichi i tipi in blockbau, che si possono scorgere ancora in qualche paese. In entrambi i tipi la copertura era in scandole, tavole di legno di larice di uguale misura, disposte in modo che una si sovrapponesse all’altra. I tetti in scandole oggi sono veramente pochi, la maggior parte sono stati sostituiti con lamiera o tegole [144]. I fienili e le stalle poste a fondo valle potevano essere annessi all’abitazione oppure costituire un edificio a parte. I rustici di quest’ultimo tipo erano spesso di grandi dimensioni e utilizzati da più proprietari. Costruiti completamente in legno, erano muniti di penith, ballatoi, e di aperture per l’aria che risultano anche decorative. Nei ballatoi veniva disposto il fieno che a causa del cattivo tempo non si era essiccato adeguatamente sul prato. I fienili erano spesso a due piani, collegati tra loro mediante una scala interna. I piani, privi di pareti di separazione, consistevano in un solo grande ambiente dove il fieno veniva accumulato in tassói\medéne. Le diverse qualità di fieno erano tenute separate. Se il fienile era a due o più piani, ciascun piano accoglieva una qualità diversa di foraggio. Il fieno ammassato, dopo quaranta giorni circa iniziava a fèi la bóia, a fermentare, e a divenire un compatto e solido cumulo. Ogni giorno la razione giornaliera di fieno da somministrare agli animali, veniva prelevata dal cumulo tagliandola in blocchi con l fèr da fén\da medéne, una lama in ferro battuto di differenti fogge, innestata in un bastone munito di una staffa. Il taglio della medéna \tasson iniziava dalla sommità che si raggiungeva con una scala a pioli. Quando il cumulo diveniva più basso si poteva utilizzare anche le force da fién\fén. Il fieno giungeva in stalla o attraverso il fiènil o, in caso che questo mancasse, veniva trasportato in larghi cesti intrecciati da portare in spalla o a mano.
La fienagione in alta montagna
Terminato il taglio delle vare iniziava quello dei prade\prà posti in alta montagna, l’inizio dei lavori era verso luglio. Il trasferimento in montagna per la fienagione era definito con l’espressione di a prade\prà. Molti dei fondi da falciare erano distanti dalle abitazioni anche tre ore di cammino, perciò la maggior parte delle famiglie era costretta ad allontanarsi da casa per lunghi periodi e vivere nei tabià. Ogni famiglia aveva a disposizione più fondi prativi posti ad altitudini differenti, che permettevano di organizzare il lavoro partendo dai prati più bassi, dove l’erba cresceva prima, per arrivare a quelli posti in alto dove l’erba veniva falciata verso la fine d’agosto. Come i tabià di fondo valle, anche quelli di montagna erano sprovvisti di uno spazio abitativo vero e proprio e raramente disponevano di una piccola cucina, cusineta, con il focolare. Non tutti i fondi erano attrezzati con dei depositi per raccogliere e conservare il fieno durante l’inverno, pertanto la pianificazione del lavoro e la sistemazione nei tabià per ciascuna famiglia dipendeva dalla disposizione delle proprietà e della collocazione dei rustici. Una proprietà composta da più appezzamenti posti a notevole distanza poteva disporre di più fienili atti ad accogliere anche le persone; nel caso di appezzamenti disposti a poca distanza era un solo fienile che serviva da ricovero ed altri più piccoli solo per il deposito.
La tipologia di questi tabià variava a seconda del loro utilizzo; infatti, i fienili che fungevano anche da abitazioni temporanee, erano costituiti da uno zoccolo in pietra dove trovavano posto una piccola stalla e talvolta la cucina, la parte sovrastante era in legno; un tipo più recente era costituito completamente in pietra. I tabià per il deposito erano invece in legno formati da tavole o più anticamente in blockbau sul modello dei fienili descritti per il fondo valle. La distinzione tra deposito e abitazione temporanea non deve essere intesa come assoluta e rigida, in quanto per esigenze organizzative di lavoro o per bisogni contingenti il loro utilizzo poteva variare. La presenza di una cucina compresa nello zoccolo di pietra del fienile era propria dei rustici del Centro Cadore, nell’Oltre Piave era isolata e distante dal fienile. Tuttavia la maggior parte delle famiglie non disponevano di una cucina e il pranzo e la cena venivano quotidianamente preparati e consumati all’aperto. Sul terreno veniva scavata una buca dove si disponevano delle pietre sulle quali accendere il fuoco; la caldiera\ciaudiera era appesa ad una catena o un bastone, infisso nel terreno e proteso verso il fuoco. La notte si trascorreva nel fienile, dormendo sui cumuli di fieno e coprendosi con i teli da fieno.
Ogni famiglia disponeva di fondi ma non accadeva tuttavia di rado che venisse fatta richiesta ai comuni per lo sfalcio di quelli di proprietà comunale. Si trattava perlopiù di fondi lontani e poco accessibili, che venivano tagliati, almeno in tempi relativamente recenti, solo sporadicamente. Questi erano naturalmente sprovvisti di tabià per il deposito del fieno e per trascorrere la notte; così le famiglie erano costrette ad organizzarsi con delle tende. Il fieno di questi prati veniva portato subito a casa per mezzo di slitte o carri. La permanenza in montagna dipendeva dal carico di lavoro e dalle condizioni meteorologiche. In caso di pioggia prolungata, che impediva il lavoro, il ritorno in paese poteva rendersi necessario più volte; in ogni caso, soprattutto le donne, una volta alla settimana facevano ritorno a casa per i rifornimenti di cibo ed indumenti e per partecipare alla messa domenicale.
Al lavoro di sfalcio di questi prati contribuivano tutti i membri della famiglia; gli uomini lontani per lavoro talvolta rientravano in paese par da n colpo a i prà. Diffusa era l’abitudine di assumere i segantini o prendere donne a ora. Con l’espressione di a ora, tòle su a ora viene indicata la pratica, frequente in passato, di ingaggiare donne per lavori dei campi, dei prati o altro e dare loro in cambio beni in natura; talora si trattava di un semplice scambio di manodopera. Per la fienagione in montagna, erano spesso coinvolti più nuclei famigliari i cui beni, di proprietà del medesimo capofamiglia, non erano ancora stati divisi. Nei tabià potevano convivere per molti giorni fino ad una decina di persone tra adulti e bambini. Tra uomini e donne non esisteva una divisione di compiti e ogni membro di ciascuna famiglia era tenuto a dare il suo contributo. Anche i bambini, che solo in casi eccezionali rimanevano a casa con le persone più anziane, si rendevano utili con servizi quali il trasporto dell’acqua con la baritha, piccola botticella in legno, o pressando il fieno nelle medène.
Come è stato detto non tutti i prati erano provvisti di un tabià per depositare il foraggio e perciò era necessario conservarlo nelle méde, mete, grandi cumuli di fieno [145]. Per costruire una méda era necessario avere abilità e conoscenze tecniche; una méda costruita senza maestria poteva danneggiare inesorabilmente il raccolto di fieno che si guastava sotto l’azione della pioggia e della neve. Il cumulo veniva realizzato conficcando nel terreno un lungo e grosso palo; sul prato tutto intorno venivano disposti dei perói, sassi, che fissavano il palo e fungevano da base per il cumulo stesso. I sassi erano quindi coperti con le legne da fién, tavole di legno; la costruzione di un buon basamento era importante, poiché esso doveva tenere isolato il foraggio dall’umidità del terreno. Effettuate queste operazioni si iniziava a sistemare il fieno intorno al palo, l’operazione doveva essere eseguita da due persone, una sul prato che raccoglieva e depositava il fieno e l’altra sul cumulo che lo distribuiva e lo pressava, folàa\ folèa .
Per evitare che la pressione del fieno verso il centro, al momento di fermentare, portasse al rovesciamento del palo e quindi del mucchio, era necessario distribuire e pressare il fieno maggiormente all’esterno e meno al centro; era questa una regola fondamentale che ogni contadino doveva sapere e rispettare. Mano a mano che il cumulo cresceva la méda si ristringeva leggermente fino ad assumere la forma di una ‘pera’. Giunti alla cima, questa era coperta con dei rami o con delle zolle di terreno infilate nel palo, l’acqua poteva così scorrere sulle pareti esterne del cumulo e non entrare e marcire l’interno. Un’alternativa alla méda era l’utilizzo, previo accordo con i proprietari, di una parete esterna di un fienile vicino. La catasta di fieno veniva costruita seguendo lo stesso principio della méda, ovvero preparando una base in sassi e tavole di legno e ammucchiando e pressando il fieno maggiormente verso l’esterno e meno a ridosso della parete, così che la pressione che si sviluppava in seguito alla fermentazione, non facesse cadere verso l’esterno il foraggio. Questo cumulo di fieno è stato indicato da un informatore di Lozzo con il termine morsèl.
- La médha, noi no aón mai fato, però èi visto. I fa lo stesso, i bete l palo n pè, un palo gros, apuntito ben che l vadhe sul teren, che l vade fondo sul tereno no. E dopo i béte dei perói gros sóte, in módo che l staghe sicuro n pè. Pò atorno lo stesso i béte perói gros, i fa come na fondamenta, e i béte pale par travers che végne bén…i béte legne de fién, pa l fién i dhis (no l é legne de fién: legne pa l fien), dhó in fondo così. E i scominthia a ciareà, e i fóla non al centro, magare se à l vithio de dhi ‘folón sul centro’, nventhi no: i fóla dhuto atorno. E go èsse senpre de chi che bicia su e de chi che fóla e gira ntorno l palo, béte che se é na médha normale basta anche un. Ma i bicia su e i gira senpre atorno e i fóla senpre atorno. Parchè: parchè girando atorno, se l fa la bóia, co l fa la bóia, al é bèlo folòu no, e alora la tende a centrà e no rebaltasse. Se nventhi se fóla atorno al palo, e de fòra nò, alora la se sverdhe, parchè la se fóla e la se sverde nvenzi sul centro no la fóla pì, la resta …la resta. E alora é mèo fèi: fólà atorno e sul mèdho manco, bisogna folà n tin, ma manco, di módho che cuan che la fa la bóia la resta senpre ntiera. E nthima, cuan che i à finì i la fa su come n pero no, e nthima i mete, i mete…alora i farèa na corona… no de venco, che elo ché? …Beh, n erbason che é su la éro, che fa dhuto n reticolato così. I la girèa forte forte forte, di módho che se pióve no vadhe dhó pa l palo nte l interno. Che la sgóre dhó, pò i la petenèa dhó ben, n módho che la séa lissa, e se pióve che no la se muffe éro. Veramente era un bèl lavoro chi che farèa, no era dhute capaci éro. Ió pre senpio èi stòu a viédhe, béte che son montòu su anca a folà n tin, ma no era l pensier mè de fèila pulito, era n àutro che avèa l pensier de fèila pulito. Ala capìu ? [146]
Il periodo di permanenza in montagna pur nella durezza del lavoro e delle condizioni di vita, che nessun informatore sembra aver dimenticato, ha lasciato anche dei ricordi positivi di una vita a contatto, come non mai, con i ritmi della natura. Le tecniche e gli strumenti per il taglio del fieno nei prade\prà erano sostanzialmente simili a quelli delle vare a fondo valle, eccetto che per il trasporto del fieno dal prato al fienile. In montagna, molto più che nelle vare, si ricorreva al telo da fieno, linthió\lenthuó\nenthuó\ la cuerta, a causa dei fili d’erba troppo corti per essere raccolti in fasci. Il telo, tessuto con il filo di canapa più scarto o ricavato dai sacchi per il trasporto di alimenti, era munito ai quattro angoli di due occhielli e due fettucce o corde. Il telo era steso a terra in modo che gli angoli, bèche, provvisti di corde, fossero a monte e i due occhielli a valle; il fieno veniva quindi distribuito, con le mani o con la forca, ponendo una viestra su ogni lato del telo e una al centro, così da ottenere una giusta distribuzione del peso. Il telo era quindi chiuso incrociando gli angoli e caricato, ciareà l linthió\lenthuó\nenthuó\ la cuerta, parte sulle spalle e parte sulla testa e portato nel fienile. Se il fienile era molto lontano dal fondo, il telo veniva trasportato con l’aiuto di una slitta. In passato venivano utilizzate per il trasporto, non solo di fieno ma anche di legna, le vélme\èlme [147]. Si trattava di grossi e grandi rami di pino, caricati di foraggio e trascinati sull’erba; le vélem\élme venivano utilizzate in terreni dotati di una certa pendenza e fatte scivolare dall’alto verso il basso. La maggior parte del fieno ottenuto in montagna veniva conservata nei fienili e trasportata a casa durante l’inverno dopo le prime nevicate. Tuttavia se la disposizione dei terreni lo permetteva, grazie anche alle vicinanze di una strada carrozzabile, alcune famiglie preferivano effettuare il trasporto durante l’autunno o la primavera con i ciar a due e quattro ruote. Il carico veniva sistemato sul carro fissato con le sole funi, o raccolto nei teli; la quantità variava per una media di 6-7 lenzuola a viaggio. Anche le donne si adoperavano per trasportare i fasci o i teli di fieno a casa, fissandoli alle gerle caricate sulle spalle. Un carico era costituito da un solo fascio o un solo telo.
Il trasporto del fieno con la slitta
La maggior parte delle famiglie che disponevano di fienili come deposito sceglievano di portare il foraggio a casa in inverno, menà co la lioda\luoida. La lioda\luoida era una grande slitta di legno, fabbricata in casa, e costituita da due lunghi ledin\audìn [148], pattini, formati da una unica trave squadrata e piegata verso l’alto nella parte anteriore, a cui s’univano le mathe [149] o ciathe [150], due bastoni che fungevano da prese per afferrare la slitta e tirare. I pattini, posti parallelamente, erano uniti da due traverse, due piccole travi sulle quali venivano fissate all’occorrenza delle tavole o altro per formare un piano d’appoggio. Il traino della slitta sulla neve, lungo le strade di montagna o lungo le biguthere, ripidissimi strade poste nei boschi, era affidato sempre alla forza degli uomini senza l’ausilio di animali. Il lavoro di recupero e trasporto del fieno iniziava verso il mese di dicembre, ma molti informatori sono concordi nell’indicare febbraio come il mese più indicato per questa attività, per le migliori condizioni della neve. Infatti a febbraio con in primi disgeli la neve si scioglieva durante il giorno, per gelare nuovamente durante la notte fino alle prime ore della mattina; veniva così a formarsi una resistente crosta di ghiaccio che permetteva alla slitta di non sprofondare e di scivolare rapidamente. Lo stare in superficie della slitta era indicato con l’espressione oggi poco diffusa sta a tòdol. La guida della slitta per il trasporto del fieno era un compito affidato agli uomini, sebbene non poche fossero le donne pratiche di questa attività. La salita in montagna e la discesa, di su e menà dó, veniva effettuata solitamente da due o più uomini. Ad associarsi per effettuare questo lavoro erano possidenti, le cui proprietà confinanti permettevano uno scambio reciproco di assistenza ed aiuto. Con l’arrivo delle prime nevicate era necessario provvedere ad aprire le strade e pressare la neve; gli uomini dovevano dunque partire per la montagna con le ciaspe\ciaspede, racchette da neve, e badili. Sulla schiena veniva caricata la slitta, a cui erano legati i l funath\fugnath e righin, funi in cuoio e corda. Anche l’abbigliamento, per quanto possibile, doveva essere adatto ad evitare che la neve entrasse nelle scarpe; si utilizzavano allo scopo dei gambali o più spesso delle fasce da legare intorno ai pantaloni.
Il fieno nel tabià, dopo alcuni mesi, era divenuto un cumulo pressato e ben compatto; per caricarlo sulla slitta, doveva essere tagliato a blocchi con l fèr da fién\fén. Mano a mano che il fieno veniva preso dalla medéna, le thópe, come venivano indicate le singole parti di fieno tagliato, si disponevano sulla slitta. Il piano della slitta veniva approntato al momento con i len da fién\fén, della legna tagliata al termine dei lavori di fienagione e conservata nei tabià per tale scopo. Terminato il carico, era necessario legarlo con le funi sul piano ed attorno ai pattini della slitta. Le funi utilizzate erano tre. Per fissarle e distribuire equilibratamente il peso, veniva impiegata talvolta una quarta fune, la còntra [151]. Se la taccola, ciònco, della fune era disposta a monte, la còntra veniva fatta passare intorno al carico, tenendo il ciònco a valle, in modo che al momento di tirare le funi, venissero esercitate due forze contrapposte che permettevano al carico di non sbilanciarsi. La còntra veniva quindi spostata di volta in volta per legare le altre. Prima della legatura definitiva venivano posti, in alto e ai lati del cumulo, dei pezzi di legno e dei rami d’abete per contenere [152] il fieno, che altrimenti poteva essere perduto lungo la strada. Ultimato il carico, iniziava la parte più difficile e pericolosa del lavoro. Il trasporto a valle, come riferiscono in molti, richiedeva abilità e prudenza. Il ‘guidatore’, impugnate le due prese laterali, si sedeva sul davanti della slitta poggiando la schiena sul cumulo di fieno e con i piedi puntati sulla neve doveva frenare la corsa della slitta. Per avere una migliore presa sulla neve, ai piedi venivano calzate le scarpe co i ciode, scarpe su cui legare delle punte chiodate. Nei tratti più impervi e ripidi si legavano intorno ai pattini delle catene di ferro che, facendo attrito sulla neve, fungevano da freno; spesso si ricorreva anche all’aiuto di un compagno per ‘calare’ manualmente la slitta nei tratti più erti. La collocazione dei tabià e dei prati, talvolta costringeva a trascinare la lioda\luoida su tratti in piano o peggio in salita. Erano spesso le donne ad accorrere in aiuto ai loro uomini. Legavano una corda su un lato della slitta, e la trainavano fino a casa.
In alcuni casi la slitta veniva condotta fino ad una strada comunale ed il carico di fieno trasferito su e portato nel fienile. Il trasferimento del fieno dalla slitta al carro veniva eseguito, come riferisce un informatore di Laggio, con una tecnica precisa che consisteva nel ribaltare la slitta con tutto il suo carico sul carro. Questa operazione era detta stadeà [153].
P. Ió èi seà par tante ane a man, anche. Parchè ero nsieme de mé fradhèl. Alora chi ane là se seàa a man, tanto a man
G. E dopo sala che se dhèa fòra pal Mauria, che é tante le località fòra là, da par dhute i bus a seà. E me ricordo che l era tanto scarso l segativo, parchè dhute se seàa l sò. Se seàa dapardhuto, eh, parchè bisognàa vede andó che nó se dèa, dèo có la sésola. Deóne sul confin de chi da Forno a seà, e ió mé godhèo, parchè che savèo che era scarso, me parìa de fèi braùre sul confin de chi da Forno, co na paura che no sèi, a tirà ìa n tin de erba par portà apèdhe, iòso!…
D. E dopo sta erba come la porteào? Sto fien, parchè ormai…
G. Sì, fién. Era la liodha, co le liodhe o co l careto, se era le strade bòne, se era la stagion bòna che nó era tanta neve.
P. E n òta ió, mé fardhel e n àutro parteóne de nóte a dhi tòle fien, parchè era l neve giathòu, che se starèa a tòdhol se disèa.
G. A tòdhol, par sóra sarae. Anche in febraio, che adhes nó é pì neve in febraio, era la neve che se giathàa forte forte in febraio e alora i dhèa par sóra. Parché ghi n era anche póca.
P. Se dhèa a tòle stó fien anche su a Passo Mauria anche pì n là.
G. E ió co me pare, éro, al me menàa su, fòra de stradha, su, su. Lui portàa su la liodha, e ió cordhe e malore. Dopo bisognàa che lo vidhasse, l me menàa su anche mé tosata che lo vidhasse. L vegnia dhó có la liodha fin dhó n te strada maestra, e là dhó era l careto. E là era da fèi na procedhura da sgancià dute le cordhe inte pa i bastói de le liodhe, e ió no èi mai capìu…Stadeà, se dhisèa… Stadeà i ciamèa. E cuan che l avèa molòu dhute le corde, l rebaltàa la liodha e restàa npachetòu ben ben l fien su l careto. Alora vegneóne dhó co l careto, parchè ca dhó da bas era taren. Chela roba là no capio, l vegnèa tristo!…e no capìo l procedimento de girà na cordha da na parte, e chel àutra da chel àutra. La liodha la restàa tacadha sul fien e l vegnia dhó al fien npachetòu ben, dopo l leàa sóte l careto e nó se moèa pì. La cordha dhuto atorno e se portèa te tabià.
D. Ma iòutre avéo tabià anche n te la montagna, disón, o se portèa dhuto a ciasa?
G. N òta se avèa pì de n tabià.
P. Calchidhun dhèa ben su col careto. Se no era neve te stradha, i dhèa col careto ndó che era comodho.
G. Sì, ndó che era còmodho, ma era su pa Sant Antone, su pa Stithinói era dhuto lóghe che no se podhèa dhi co i careti: co le liodhe. Ma i dhèa avanti fin che… Adhé no è…sì, é parechi ane che no é gnache pì neve, se se volesse dhi có la liodha.
D. Siché porteà te tabià?
G. Te tabià. E n òta i partìa bonóra, me penso che me pare partìa proprio bonóra, bonóra, i ruàa a ciasa co la barba co i giathin! Giathadha, dhute giathadhe. Co i ciauthói, pò i tolèa le ciaspe andóe che no i podhèa, e sté manethe, sti passamontagne. A vedhe un de chi adès…!
D. E l fien da l fienil a la stala come se fa a portà?
G. Basta dhi inte te tabià e pò lo biceóne dhó pa l bus e ruàa dhó de sóte. [154]
Il fieno
In Cadore i prati coltivati erano una percentuale irrisoria, quasi incalcolabile, ed il foraggio era sostanzialmente fornito dall’erba che spontaneamente nasceva sui terreni.
Le qualità di fieno venivano distinte in base ai prati di provenienza e ai tagli. I prati si dividevano in vare e prade\prà; i primi erano posti nelle zone limitrofe all’abitato e i secondi in montagna. Oltre ad un’ovvia distinzione in base alle qualità differenti d’erbe che essi fornivano, le vare si distinguevano dai prade\prà perché venivano fertilizzate con letame e da esse era possibile ottenere più tagli. I prati d’alta montagna fornivano, per via dell’altitudine e della totale mancanza di concimazione, non più di un taglio all’anno. Il fieno proveniente dalle vare veniva distinto tra fién\fén da vare, ovvero fieno del primo taglio falciato tra maggio e giugno e utigói\autivuói\ auitiguói [155], ovvero fieno del secondo taglio falciato tra luglio e agosto. Meno frequente era il terzo taglio, talvolta indicato con il termine terthin, che spesso veniva lasciato per il pascolo degli animali scesi dall’alpeggio. Il fieno dei prati di montagna era indicato con il termine fién\fén da prà o da monte e veniva tagliato tra luglio ed agosto: ‘l primo fién è fién da vare, no sèi porcè che i ciama fién da vare, secondo fién: autivuói. L tertho diseóne chel de la terthòta’. La qualità del foraggio dipende dalle caratteristiche proprie dei vari tipi d’erba, per cui il fién\fén da vare si presentava più robusto e con fili d’erba più lunghi rispetto al utigói\autivuói\ auitiguói, che invece era tenero e con fili d’erba giovani e perciò con una maggiore concentrazione di sostanze energetiche, varia inoltre in rapporto alle sostanze nutritive del terreno e alle condizioni climatiche.
Gli informatori indicano generalmente come fieno migliore, quello proveniente dai prati con una consistente presenza di foglie, che si trovavano in particolare nelle vare. Non sempre, tuttavia, il fieno d’alta montagna era di minore qualità grazie ad una buona e prolungata esposizione al sole dei prati e alla presenza di pregiate e aromatiche varietà d’erba. Ma la qualità dei fieni dipendeva molto dal modo con cui veniva condotta la fienagione stessa. Nel corso delle operazioni di rastrellamento, restelà, rodolà, rivoltamento, òltà\voltà e ammucchiamento l’erba poteva venire spezzata e i fiori e le foglie persi, era pertanto necessario prestare la massima cura e attenzione a tali pratiche. Va tuttavia sottolineato che la fienagione praticata manualmente limitava di molto la possibilità di danneggiare il fieno, rispetto a quella effettuata con meccanici mezzi. Infine un’eccessiva esposizione al sole e soprattutto il dilavamento da parte delle piogge portava alla distruzione di buona parte delle sostanze nutritive.
Lo stoccaggio del fieno doveva avvenire quando questo era ben secco, per evitare la formazione di muffe o altre alterazioni che subentravano al momento della fermentazione. Il fieno che per i motivi sopraindicati aveva subito alcune alterazioni si presentava di colore sbiadito, pagliericcio e poco saporito, per rimediare a questo inconveniente si ricorreva all’aggiunta di sale che, rendeva il fieno più appetitoso.
Le varie qualità di fieno venivano somministrate agli animali in momenti differenti in base alle loro proprietà e alle esigenze dei bovini. Il fieno del secondo taglio, considerato più pregiato, e con alti valori nutritivi era particolarmente consigliato alle bovine in lattazione, poiché stimolava la produzione di latte e agli animali in accrescimento per il suo apporto energetico. Il fieno del primo taglio o di montagna era somministrato regolarmente nel corso di tutto l’anno, mentre quello più scarto e mal riuscito veniva utilizzato mescolato ad altre qualità o usato per la lettiera. In base alle considerazioni ora fatte sugli elementi che determinano le differenti qualità del fieno, si capisce come il calcolo per stabilire la quantità di foraggio necessario per allevare una mucca deve considerare una serie di varianti non trascurabili. La quantità di fieno, calcolata intorno ai 50 quintali, per capo, che alcuni informatori hanno indicato come necessaria per allevare un bovino in stalla, si riferisce ad un periodo di stabulazione che variava dagli 8 ai 9 mesi, considerando che verso la tarda primavera e l’inizio dell’autunno, i bovini erano nutriti in parte con erba fresca. Il numero di animali allevati era pertanto strettamente dipendente dalla quantità di foraggio ricavato dai prati posseduti e per alcuni allevatori dalla possibilità o meno di acquistare fieno in zona. Quest’ultima pratica risulta in realtà poco frequente in Cadore e così il numero di bovini che ciascuna famiglia poteva allevare rimaneva pressoché stabile, a meno ché non subentrasse un consistente aumento delle proprietà grazie ad un’eredità.
Note al testo:
[139] Antonio Barpi, La pastorizia in Cadore, op. cit., 1876. [torna su]
[140] Un informatore di Auronzo riferisce che per portare il letame, veniva fissato sulla slitta l pontin una tavola in legno che fungeva da piano della slitta. [torna su]
[141] Molte famiglie durante il periodo di fienagione in alta montagna venivano coadiuvate nel lavoro da uomini provenienti dal Trevigiano. Ai segantini veniva garantito vitto e alloggio e un pagamento spesso in natura. Fonti orale. [torna su]
[142] Tutti gli informatori ricordano che l’ultimo funather del Cadore era di Auronzo. Le funi venivano realizzate con la pelle di bovino. [torna su]
[143] A. M. e B. D.R., anni 78 e anni 85, ex contadina e ex operaio S.A.D.E., Pelos di Cadore, inverno 1999.
A. In agosto la gente andava su, sì. Poi salivamo a prendere (il fieno), facevamo i covoni, lo portavamo sulla testa fino alla strada, lì poi avevamo i carri sui quali caricavamo i fasci, e tornavamo a casa.
B. Lo portavamo a Vigo.
D. Tirando il carro da voi?
A. Si.
D. Non un animale?
B. E quali cavalli!
A. No, cara, lì il carro ce lo tiravamo noi.
B. Niente traini, quattro persone e avanti.
A. E quando mi sono sposata, ho fatto diciassette noli, dicevamo allora, col carro. Alzandosi all’una e mezza, alle due e alle tre di notte per andar su, vero. E a mezzogiorno eravamo a casa col fieno, perché lassù i cosi, i tabias non erano a portata di mano, bisognava camminare ancora un pezzo e poi andare a farsi fasci per portarli con il carro.
D. E che portata ha un carro?
A. Allora ci caricavamo sopra dodici torse, le chiamavamo torse.
D. Dodici?
A. Dodici fasci.
D. Piuttosto pesante, quindi?
A. Eh, pesavano da…
B. Cinquanta chili.
A. Cinquanta chili, pesavano i fasci. E portare sulla testa cinquanta chili, capisce che…
D. Ma con… voi la chiamate cuèrta?
A. No no, con la corda di canapa, con la corda di cuoio.
B. La corda di cuoio, sì sì.
A. Quelle che si facevano… Allora comprano le pelli, e con le pelli si facevano le corde di cuoio, le attorcigliavano come trecce, come le trecce delle donne, diciamo…
B. Forti, quelle.
A. E fabbricavano le corde di cuoio così.
D. Le facevano qui a Pelos?
A. No.
D. Ad Auronzo…
A. Li chiamavano i funathèi, ad Auronzo. Portavano loro le pelli, di quelle vacche che magari morivano o qualcuno andava a comprarle dal maccellaio, non so, gliele portavano e loro facevano le corde.
B. Anche mio padre ne ha portate là, ha fatto parecchie corde di cuoio.
A. Sì, e quelle andavano bene, perché non si rompevano né niente. E allora….D.
D. Invece… noi diciamo i lenthuói, voi dite cuèrta?
A. Le cuèrte, sì.
D. Ah, noi diciamo lenthuó, ecco; e quando si porta il fieno con il telo, allora?
A. E’ uguale
B. E’ la stessa cosa.
A. La stessa, la stessa, ma in montagna, così, come si faceva? Innanzi tutto non c’erano tanti teli, facendo anche dodici teli, e poi ce ne stava di più. Sui… Perché bisogna fare tutti i mannelli per fare i fasci. Si facevano i mannelli e si mettevano insieme sei mannelli per fare un fascio; poi lo si legava, ci si saliva sopra e si tirava fino a ritrovarsi seduti in terra. Ero sempre io a legare, perché dicevano che avevo più forza, perché se non erano legati stretti si slegavano.
D. Ma si lega stando in terra?
B. In terra, in terra.
A. Si metteva la corda così, no: lunga distesa. Poi ad un capo c’era una taccola: la si piantava nel terreno per tener fermo, e poi si stendevano una sopra l’altra tutti i cosi, i mannelli, sei, non più di sei perché altrimenti si faceva… [torna su]
[144] Vedi nota 20 [torna su]
[145] Sui diversi sistemi di conservare il fieno nelle Alpi Orientali si veda Carla Marcato, Intorno alle denominazioni del ‘fienile’ nell’Italia nord orientale, in ‘Archivio per l’Alto Adige’, LXXVI, Firenze, Istituto di studi per l’Alto Adige, 1982. [torna su]
[146] E.V., anni 72, ex operaio ottico e allevatore, Lozzo di Cadore, inverno 1999.
La meta, noi non l’abbiamo mai fatta, però l’ho vista fare. Fanno la stessa cosa, mettono il palo in piedi, un palo grosso, bene appuntito, che vada nel terreno, che vada a fondo nel terreno. Poi ci mettono sotto delle grosse pietre, in modo che resti saldamente in piedi. Dopo di ché anche tutto attorno ci mettono delle grosse pietre, fanno delle specie di fondamenta, e mettono pali di traverso che vengano… usano ‘legna da fieno’, per il fieno, dicono è legna di fieno: legna per il fieno, giù in fondo così. E cominciano a metterlo su, e pressare non al centro, magari si tende a dire ‘pressiamo nel mezzo’, invece no: lo pressano tutt’attorno. E bisogna che ci sia sempre qualcuno che butta sul fieno e qualcuno che lo pigia e che gira intorno al palo, nel caso di una médha normale ne basta anche uno. Ma buttano sempre su il fieno, e girano sempre attorno e pressano sempre attorno. Perché: perché girando attorno, se fermenta, quando fermenta, è già pressato, no, e quindi (la médha) tende verso il centro e non si rovescia. Se invece si pressa il fieno vicino al palo e non all’esterno, allora si apre, perché si comprime e si apre, invece (pressando) al centro non si cede più, resta… resta intatta. Perciò è meglio fare così: premere più all’esterno e meno in mezzo, bisogna premere un po’, ma meno, in modo che quando fermenta rimane sempre intera. E in cima, alla fine, le danno la forma come di una pera, e in cima ci mettono, ci mettono… allora facevano una corona… non di salice, cos’è? …Beh, un’erba che c’è su di là, vero, che forma un reticolato così. L’avvolgevano stretta stretta, in modo che se pioveva l’acqua non scendesse lungo il palo all’interno. In modo che scorresse giù, poi la pettinavano bene, perché fosse liscia, e se pioveva non si ammuffisse, vero. Era veramente un bel lavoro, chi lo faceva, non ne erano tutti capaci, vero. Io, per esempio, sono stato a guardare, metti che ci sia anche salito sopra a premere un po’, ma non era compito mio quello di farla bene, era un altro che aveva il compito di farla bene. Ha capito? [torna su]
[147] Un informatore di Lozzo con il termine vélma ha indicato un fascio di fieno, legato con una fune in cuoio e trascinato tirando la fune dall’alto del prato verso il basso dove si trova il fienile. [torna su]
[148] I pattini erano ricavati da un’unica lunga trave, solitamente di faggio, dotata di una naturale curvatura. [torna su]
[149] Mathe è un termine molto generico che indica generalmente dei bastoni lunghi utilizzati in diverse maniere; le mathe da fasói\fasuói sono ad esempio i bastoni che vengono conficcati nel campo per permettere alla pianta de fagiolo di arrampicarsi e crescere in altezza. Questo termine, usato per indicare le prese della slitta da fieno, è stato riferito da un informatore di Domegge. [torna su]
[150] Il termine ciathe è stato usato a Calalzo. [torna su]
[151] Questo termine è stato usato da un informatore di Lozzo ed è conosciuto anche ad Auronzo. A San Vito di Cadore per legare il carico di fieno al carro vengono usate sei funi più la soragna, ovvero una fune più spessa con la stessa funzione della còntra. Fonte orale [torna su]
[152] A Lozzo viene usato il termine inbrasidà per indicare il lavoro di sistemazione dei legni per contenere il carico di fieno. [torna su]
[153] Questo termine è stato riferito da un informatore di Laggio. [torna su]
[154] G. P. e P. D., anni 63 e 69, ex contadini, Lorenzago di Cadore, autunno 1998.
P. Io ho falciato per tanti anni a mano, anche. Perché ero insieme a mio fratello. Allora in quegli anni si falciava a mano, tanto a mano.
G. E poi si andava sul passo Mauria, che lì ci sono tanti posti, a falciare in ogni buco. E mi ricordo che il segativo era tanto scarso, perché tutti falciavano il proprio terreno. Si falciava dappertutto, eh, perché avresti dovuto vedere dove non si andava, andavo col falcetto. Andavamo a falciare sul confine di quelli di Forni, e io mi divertivo, perché sapevo che era scarso, mi sembrava di far delle bravate sul confine di quelli di Forni, con una paura che non so, a strappare un po’ di erba per portarsela via, iòso!
D. E poi quest’erba come la trasportavate? Questo fieno, perché ormai…
P. Sì, fieno. C’era la slitta, con le slitte o col carretto, se le strade erano buone, se c’era la stagione buona che non c’era tanta neve.
D. E una volta io, mio fratello e un altro partivamo di notte per andare a prendere il fieno, perché c’era la neve ghiacciata, che si stava a tòdhol, si diceva.
P. A tòdhol, cioè in superficie. Anche in febbraio, che adesso non c’è più neve in febbraio, c’era la neve che si ghiacciava molto in febbraio, e allora ci stavano sopra. Perché ce n’era anche poca.
P. Si andava a prendere questo fieno anche su per il Passo Mauria, e anche oltre.
G. E io con mio padre, vero, mi portava su, fuori dalla strada, su, su. Lui portava su la slitta, e io corde e cianfrusaglie. Poi bisognava che lo aiutassi, mi portava su anche da ragazza perché lo aiutassi. Scendeva colla slitta fino giù alla strada principale, e laggiù c’era il carretto. E lì bisognava seguire una procedura per sganciare tutte le corde fra bastoni delle slitte, e non ho mai capito… Stadeà, si diceva… Lo chiamavano stadeà. E quando aveva slegato tutte le corde, ribaltava la slitta e il fieno rimaneva impacchettato ben bene sul carretto. Allora scendevamo col carretto, perché qui in basso c’era terreno sulla strada. Quella cosa lì non la capivo, e lui si arrabbiava!… e non capivo il procedimento di girare una corda da una parte e l’altra corda dall’altra. La slitta restava attaccata al fieno e portavamo giù il fieno bene impacchettato, poi lo legava sotto il carretto e non si muoveva più. Con la corda tutt’intorno, e lo si portava nel fienile.
D. Ma voi avevate tabià anche in montagna, diciamo, oppure si portava tutto a casa?
G. Una volta si aveva più di un tabià.
P. Qualcuno saliva anche col carretto. Se non c’era neve sulla strada, andavano col carretto dove era comodo.
G. Sì, dov’era comodo, ma era su per Sant’Antonio, su verso Stithinói c’erano molti terreni dove non ci si poteva andare con i carretti: con le slitte. Ma andavano avanti finché… Adesso non c’è… sì, sono parecchi anni che non c’è neanche più neve, volendo andare con la slitta.
D. Quindi lo portavate nei tabià?
G. Nel tabià. E una volta partivano presto, mi ricordo che mio padre partiva proprio presto, presto, arrivavano a casa con le barbe piene di ghiaccioli! Gelati, tutti gelati. Con le ghette, poi prendevano le racchette da neve dove non potevano camminare, e i guanti, i passamontagne. Vedendo uno di loro adesso…
D. E il fieno dal fienile alla stalla come si porta?
G. Basta entrare nel fienile e poi lo buttavamo giù per il buco, e arrivava di sotto. [torna su]
[155] Accanto a questi due termini si trovano rispettivamente anche fién\fén de prime\ e fién de secondo [torna su]