Odore di resina e profumi di bosco, ricordo di voci, stridio di sega mescolato a colpi di accetta e tanta fatica traspaiono da questi 300 e più vocaboli raccolti e ordinati nel presente glossario. Essi costituiscono come la trama, la tessitura profonda del mestiere del boscaiolo o boschiér, che ha segnato tanta parte della nostra economia ladina.
Questa sezione della ricerca si intitola glossario. Si sa che glossario, diversamente dal vocabolario, era all’origine una raccolta di glosse, ossia di spiegazioni che si scrivevano ai margini di una pagina per far capire al lettore certe parole difficili che erano nel testo; in seguito ha assunto il significato di raccolta di vocaboli specialistici, di voci oscure e antiquate, accompagnate da spiegazione e commento. Il nostro può dirsi proprio un glossario in senso vero, in senso originario; infatti, qui le parole sono tratte dalla narrazione degli intervistati e sono spiegate brevemente; in verità non sono state scritte ai margini delle singole pagine (non si usa più farlo!) ma, per una loro più facile consultazione, sono state riportate in ordine alfabetico in un apposito capitolo.
Tali parole sono state selezionate e trascritte proprio perché, ai lettori non del mestiere, le interviste in certi punti possono apparire oscure, bisognose di chiarimento. Così forse sarà per il grido ciohin lanciato da un boscaiolo ad indicare la concessione del permesso, l’autorizzazione alla discesa dei tronchi nella rišena, mentre la voce bauf era l’ordine opposto, ossia quello di smettere di lasciar scendere le tàie o tronchi. Queste voci potevano non essere del tutto chiare e perciò erano proprio indicate per un glossario.
La presente raccolta di termini, invece, non è principalmente un glossario in senso moderno, ossia non contiene anche voci antiche, dimenticate, poiché la terminologia qui riunita è tutta ancora in uso presso coloro che lavorano nei boschi. Certuni, in verità, avrebbero desiderato poter leggere nelle pagine seguenti anche parole “vecchie”, ormai fuori uso e dimenticate dai più. Ma raccogliere tali testimonianze del passato è fare una specie di “archeologia linguistica”, ossia iniziare a dissotterrare dalla memoria termini sepolti sotto pesanti strati di altre parole e di altre realtà. Tale non è stato l’intendimento del glossario, che ha uno scopo pratico: far comprendere le interviste.
Né, d’altra parte, il glossario contiene delle voci gergali. Tali parole avrebbero lo scopo di nascondere i significati a quelli che non sono del gruppo; qui di tali vocaboli con sensi segreti non ci sono. Uniche eccezioni sono costituite da certi termini agordini, ad esempio rabul, “cappello di scarsa fattura”, che derivano dal gergo dei seggiolai i quali coniavano le proprie parole per non farsi capire dagli estranei.
Non si deve, però, pensare che tutti i termini raccolti siano di uso corrente presso tutti. Alcuni di essi hanno una circolazione ormai limitata a qualche luogo o a qualche categoria di persone (in genere, i vecchi). Un esempio che si può fare al riguardo chiama in causa il mese di “gennaio”. Per dire “gennaio” la parlata della Val Boite conserva ancora il termine dnei. Esso è la corretta e normale trasformazione ladina del latino j a n u a r i u, ossia “gennaio” o anche “Gennaro”. Delle altre zone ladine qui prese in esame hanno ancora questo termine, pur un poco trasformato, Zoldo con dinèr e il Cadore centrale con denèi; esso, ora raro e di area limitata, era invece un tempo diffuso ovunque, anche in Comelico che conserva ancora il toponimo Pardnèi (ossia Presenaio) che è il “prato di gennaio” o “prato di Gennaro”, in cui la seconda parte del termine contiene conglobato appunto dnèi.
Eguale discorso si deve fare per il termine faurèr attestato nello specchietto per la parlata di Zoldo nel significato di “febbraio” Tale parola ora non è più usata altrove, ma tempo fa essa era comune a tutti i ladini; il Comelico conosce ancora, sulla bocca dei più vecchi, il vocabolo furèi che è, come quello zoldano, il continuatore del latino f e b r u a r i u.
E’ un peccato che nessuno degli intervistati abbia usato i termini antichi per i nomi degli altri mesi: si sarebbe visto, ad esempio, che i per “aprile” da noi si usava urì (si ricordi il proverbio: la luna d urì bati set oti al dì, ossia “la luna di aprile batte sette volte al giorno”, proverbio citato riguardo ai deboli di mente che in aprile più di altre volte danno segni di stravaganza); si sarebbe specialmente trovato il termine msal per “agosto”, termine bellissimo che ricorda al parlante il biondeggiare delle messi. Ma le interviste non ci riportano più questi termini: abbiamo il solito agosto, aprile, ecc..
Pertanto il glossario non fa archeologia. Per rendersene conto cito un altro esempio del Comelico, della Val Boite e del Cadore: nello specchietto per “cappello di scarsa fattura” si riporta la voce ciaplat, ciapelato, capelath; ma fino a qualche decennio fa era ben vivo il termine cathòl, con significato egualmente dispregiativo. Riesumarlo non era compito del glossario.
Questa, con altre simili osservazioni che si possono fare, indica che la parlata ladina si sta evolvendo, che lascia da parte certe espressioni e ne adotta di nuove. Che dire in proposito? Avvinghiarsi al passato? Sarà da tenere presente che tutto ciò che è vivo si muove e si trasforma: la calma assoluta è propria dei cimiteri; il presente glossario non è un “cimitero di parole”, ma un giardino o, per restare in tema, un bosco ancora ben vivace.
Se si esamina poi qualche caratteristica del glossario, si può partire dalla osservazione che questa raccolta mira a dare una visione comparata delle parlate ladine di tanti nostri paesi. Le varie voci vi sono disposte una accanto all’altra, a seguito del concetto fondamentale espresso nella prima colonna in lingua italiana. Le ulteriori colonne riportano i termini del Comelico, della Val Boite, del Cadore centrale, di Zoldo e dell’Agordino. Abitualmente i linguisti pongono i termini uno di seguito all’altro senza stabilire colonne o divisioni particolari: ma neppure la presente disposizione influisce sul contenuto del glossario. Come del resto, per questo tipo di lavoro, è stato indovinato partire dai concetti di base espressi in italiano e non in latino, come fanno gli studiosi.
Da uno sguardo complessivo allo specchietto si nota subito come la terminologia sia praticamente la stessa in tutte le zone ladine. Non si deve badare a certe piccole differenze di pronuncia che non intaccano la fondamentale unitarietà del lessico. Infatti si tratta, spesso, di differenze che si riscontrano anche tra paesi vicini e che talvolta sono enfatizzate solo per amor di campanile. Se in un ipotetico vocabolario di una nostra vallata si dovessero segnare con una voce propria tutte le varianti per i vari vocaboli, il volume sarebbe almeno tre volte più grosso di quello che invece si deve fare. Un caso per tutti: la parola che il nostro glossario riporta per “parte più grossa di un tronco” è detta a Dosoledo ció, a Candide-Casamazzagno cé, a Padola ciùe; non è il caso di riportare il vocabolo tre volte!
Però, essendo la parlata ladina ricca di variazioni tra una frazione e l’altra, tra un paese e l’altro sorge il problema di quale varietà scegliere per rappresentare tutta la zona. Questo problema è sentito un po’ dovunque; nel glossario le principali differenziazioni fonetiche sono state annotate per il Comelico, mentre quelle lessicali sono state segnate per l’Agordino. Nelle altre zone si è tenuta, per lo più, una linea di sobrietà, evitando di registrare variazioni a quel vocabolo che il compilatore ha scelto come centrale e più rappresentativo della zona.
Si diceva che le parole riguardanti il bosco sono ancora ben vive nell’uso. E quelle che ci colpiscono alla lettura sono quelle delle piante, delle “essenze”. In genere, nelle interviste vengono indicate genericamente col termine pianta e non con il neologismo “alber”. Forse c’è sotto anche qui la distinzione linguistica che pone al femminile le cose più grandi e al maschile quelle di minor dimensione analogamente a quanto avviene, per portare un esempio tratto dallo specchietto, in faghèr (pianta normale) e faghera (pianta più consistente). Questa regola trova applicazione anche nel caso di manera, mannaia più grande, da adoperarsi a due mani, e manaré, manaró, scure più piccola, da adoprarsi con una sola mano; si vede funzionare nel caso di matha e mathòt o, nel lessico più generale, in bus (buco) e buda (buca), ventu (vento) e venta (vento forte), ecc.
Parlandosi di piante e non di alberi è conseguenza logica che, dappertutto nei nostri paesi, l’albero maggiore del bosco venga detto regina e non “re”.
Scorrere i nomi ladini delle piante è ripassare un po’ la botanica e la sua terminologia latina. Così per “abete bianco” ci viene in mente sia a b i e t e che dà in ladino aviéth e vethe, sia pure a b e t i n u che produce da noi avedìn, avedì, vedì, vdi.
Invece l'”abete rosso” ha come base latina il termine p i c e t u che, ben trasformato, ma seguendo regole precise, dà ora ptho ora pethuò mentre dalla forma p i c e a produce peth.
Il faggio era detto dagli antichi in due maniere diverse: per alcuni era v e s p i c u l a da cui vespola, vespla; da altri era detto f a g a r i u da cui il nostro faghèr o, se particolarmente grande, faghera.
“Acero” e “larice”, rispettivamente da a c e r e l a r i c e, ci parlano della loro vita più o meno difficile, nelle nostre zone. Anche la “betulla” continua da noi le solite trasformazioni fonetiche di b e t u l a divenendo, con suffisso, ora budoi, bedoi, ora, senza suffisso, bedol.
L'”ontano” è di due specie: bianco e verde e i ladini hanno nomi specifici per distinguerli. Quello bianco si rifà a un a l n u e produce auno, ouno ; a l n i c i u poi continua in aunìth (la forma italiana deriva, invece, da a l n e t a n u); quello verde ha una radice a m p, molto antica, produttrice di tanti termini ladini (tra cui anche il toponimo Ampezzo) e spiega i nostri ampiadèi, ampedìn, anbi.
Il “pino” merita qualche parola di commento. Se è quello silvestre, ovunque da noi è detto pin, evidentemente da p i n u; se, invece, è “pino cembro” si chiama thirm, thirmo, thirum o, con suffisso, thirmol, dalla voce tirolese Zirm, scesa fin nelle nostre vallate e oltre. Infine se è “pino mugo” continua una vecchissima parola e diviene ovunque barancio, barance. Altra parola antica è quella che indica la “fronda d’albero” che tutti i ladini chiamano dasa.
Ogni specie di vegetazione, come ogni terreno a coltura, viene quasi paragonata a una persona; per cui se è prospera si dice morvia, morveda, norbeda, dal latino m o r b i d a, ma con significato opposto; in latino il vocabolo, derivando da m o r b u (malattia), significava “malaticcio” e poi “fiacco”; qui significa invece una pianta ben rigogliosa. Il senso latino, che si è perso nel vocabolo morvia, è conservato in puròn, poreto, puarét, tutti vocaboli derivanti dal latino p a u p e r u, ossia “povero” usato quasi sempre con suffisso; mentre senza suffisso è presente in esclamazioni in cui l’accento cade sulla parola seguente, tipo il comeliano pura me, povera me.
Se una pianta può essere paragonata a una persona, essa può piangere: lo dicevano spesso a noi piccoli, perché non danneggiassimo il bosco; le sue lacrime sono la rada o raša (da un antico r a s i a) che scendendo lungo il tronco forma come dei ruscelletti (in latino r i v u) o arié, areà.
L’insieme delle piante forma un bosco o bosc. A questo termine, usato da tutti i ladini, il Comelico con la Val Boite aggiunge anche il vocabolo vitha, che invece ha un senso più ristretto, significando “bosco folto, in genere di proprietà comunale o demaniale” secondo la definizione di O. Marinelli e che come origine può risalire all’antico alto tedesco wizan, wizi, ossia “multare, multa, punizione” essendo questi boschi particolarmente protetti anche con multe e punizioni. Interessante sarebbe una adeguata descrizione delle arte ossia “attrezzi”; arte, parola usata sempre al plurale, nel senso di “utensili” è caratteristico di tutta la zona veneta. Nel vecchio vocabolario veneziano del Boerio si legge: “arte, dicono i pescatori nel significato di stromenti o arnesi della loro arte”. Descrivere le arte dei boscaioli sarebbe oggetto di una parte speciale della linguistica che va sotto il nome di Wörter und Sachen, cioè “parole e cose”. Il glossario ne dà una descrizione sintetica. Sopra si è accennato a manera, manaró, manaré, cui si deve aggiungere per completezza manarìn e manarguó, trasformazione locale quest’ultimo caso di manaró. Senza entrare in maniera più specifica in tale settore si accenna qui soltanto a bigotha che tutte le zone conoscono e a grifi. Grifi, che è conosciuto anche dall’italiano come “griffi”, risale al vocabolo antico alto tedesco grifan che significava “afferrare, tenere” e significa da noi “ferri da ghiaccio”, da mettersi sotto le scarpe per non scivolare. Ora non si usano più, se non in casi del tutto particolari. Bigotha invece significa la “parte anteriore del carro” e ha un antecedente latino che spiega anche bigothera, ossia “sentiero” ove non si può passare col carro intero, ma solo con la parte anteriore. Ogni termine che si trova nel glossario meriterebbe un commento; ma la cosa potrebbe diventare noiosa, oltre che sproporzionatamente lunga. Sarà il caso di accennare, come finale, al termine Regola, che tutte le nostre zone hanno conosciuto e che ora, dove non esistono più, si sta per riportarle in vita. Le Regole sono definite dalla Legge regionale 26/96 come “le comunità di fuochi-famiglia o nuclei familiari proprietari di un patrimonio agro-silvo-pastorale collettivo, inalienabile, indivisibile ed inusucapibile”.
Il lavoro dei boschieri ladini si svolgeva sia nei boschi privati, sia in quelli di Regola; occupava le migliori energie del paese in un impegno che richiedeva perizia e forza e non era esente da pericoli, tanto che ogni donna, salutando il suo uomo che andava a lavorare nel bosco, lo ammoniva dicendo: “vardati dal mal”, poiché l’incidente era sempre in agguato.